ROMA – L’aneddoto-parabola che, nella sua microscopica esemplarità, spiega come Andreotti governava, gli uomini prima ancora che le cose. Giovane, rigido, integerrimo e anche un po’ moralista capo settore del servizio politico di un grande quotidiano. Aggiungi la ricorrenza del Natale e sul tavolo del giornalista arriva andreottiano omaggio: una penna o una cornice d’oro. Pronto rinvio al mittente, rinvio algido, altezzoso, quasi sprezzante. Altro Natale, altro omaggio, stavolta di pelle.
Stesso esito, medesimo rinvio e così per un paio di anni ancora. Fino a che la mira andreottiana non diventa precisa e l’omaggio arriva mirato: una tessera del Coni per entrare in Tribuna in ogni stadio. Omaggio accettato, bersaglio colpito con infinita pazienza e professionale conoscenza dell’animo umano. La parabola autoironica con cui Andreotti narrava come governava le cose, arguta e crudele verso se stesso e l’interlocutore, era la “parabola dei problemi”.
Diceva: ci sono tre tipi di problemi. Primo: quelli che si risolvono da soli e di cui non vale la pena di occuparsi. Secondo: i problemi senza soluzione, di cui è vano occuparsi. E il terzo tipo? Se non risolvono da soli e se non sono irrisolvibili, allora non sono veri problemi: occuparsene è inutile. Giulio Andreotti, cioè il governo: l’uomo e il concetto erano in simbiosi, lo sono stati per decenni. Governo profondo e perenne di un’altra Italia. Un’Italia anti comunista come lo era Andreotti fin dai tempi di De Gasperi. Ma che dai comunisti non era ossessionata, tanto che trenta anni dopo con i comunisti fece un patto di salute pubblica e quasi un governo.
Andreotti c’era. Come c’era negli anni che vennero ancora dopo, quelli del Caf, gli anni in cui i governi educarono e convinsero il paese tutto ad altri patti. Con i dipendenti pubblici patto “sovietico”: poco salario, poco lavoro. Con i lavoratori autonomi patto corporativo vintage e liberista ante litteram: esenzione di fatto da metà delle tasse dovute. Con industriali e operai patto sghembo e ineguale, comunque soldi pubblici per entrambi. Con la Chiesa cattolica patto laico: in Italia la croce regnava ma non comandava. E patti con il terrorismo internazionale nascente perché l’Italia fosse “paese aperto” e senza bombe. E patti con la criminalità organizzata perché stesse “al posto suo”.
Andreotti c’era sempre. C’era quando il paese si indebitava per le due generazioni a venire. E c’era stato quando, negli anni ’50 e ’60 il paese si era arricchito come mai nessuna generazione aveva mai visto. Andreotti “Divo”, cioè divino perché il suo potere era in ogni luogo e in ogni tempo. E Andreotti “Belzebù” perché demoniaca appariva la sua capacità di intrigo e di intreccio. Andreotti che salva la Repubblica dalle Br, Andreotti che non salva Aldo Moro. Volpe che non perdeva mai il pelo, lupo che non perdeva mai il vizio. Andreotti non “era” l’Italia, non nel senso in cui oggi Berlusconi “è” gran parte d’Italia. Berlusconi con cui Andreotti non si è mai intruppato e non ha mai combattuto.
Della sua Italia Andreotti non era lo specchio, ma ne era insieme il parroco accomodante, l’avvocato azzeccagarbugli, il commercialista creativo, il preside in cattedra perché aveva studiato di più. Andreotti che faceva sembrare un sogno “non morire democristiani” e il cui nome, traccia e memoria fanno apparire un rimpianto tale mancato esito della vita pubblica e della politica. Andreotti che, quando tutto crollò, anche sulla sua testa, ebbe quel che Craxi e Berlusconi chiamarono e chiamano pubblicamente “le palle”. Quelle che Craxi non ebbe e Berlusconi non ha, quelle per affrontare non solo i giudici in processo ma il processo della pubblica opinione. Il primo processo lo vinse in aula, anche molti dicono solo pareggiato. Il secondo processo lo stravinse in vita. Nessuno troverà nulla da dire quando in ogni città italiana ci sarà una via o una piazza “Giulio Andreotti”.
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