ROMA – Pierluigi Bersani è il leader, riconosciuto e incoronato il giorno in cui un altro leader nasce, Matteo Renzi. I progressisti, l’alleanza politica e il mondo culturale e sociale che vanno dal Pd a Sel fino al Psi e alla Cgil e agli “arancioni” alla Pisapia o De Magistris, questo storico e rilevante pezzo d’Italia ha il suo leader, candidato alla presidenza del Consiglio, a guidare il governo se l’alleanza vincerà le elezioni 2013. Pierluigi Bersani, leader voluto e votato, leader che oggi ha forza e investitura piena, la “sua gente”-così sottolinea Massimo D’Alema, lo ha scelto senza ombra di dubbio. Bersani è il migliore, il “campione in campo” di circa un italiano su tre, di quelli che votano: un sacco di gente, forse il più della gente.
L’altro leader appena nato, Matteo Renzi? Ha perso, la “sua” e l’altra gente non è riuscito a convincerla che si potesse, tutto e tutto insieme, cambiare in un giorno politica e andazzo del partito e della sinistra, mutare cultura e abiti culturali, dismettere i panni di sempre e indossarne di nuovi. Non ce l’ha fatta, Renzi non ha avuto dalla “sua” e dall’altra gente i voti per provarci. Soprattutto quei voti glieli ha negati la “sua” gente, quella del Pd. Ma Renzi potrebbe, anche se non certo oggi, essere il “campione in campo” di quasi un italiano su due di quelli che votano. Quanto basterebbe per non fare un governo che contiene e incolla tutto e il contrario di tutto. Un esempio: la riforma Fornero delle pensioni, il suo mantenimento, la sua correzione limitata, la sua correzione ampia a colpi di eccezioni “sociali” alla regola, la sua cancellazione…Il patto e il pareggio di bilancio: nel governo prossimo venturo, quello votato da un elettore su tre, patto e pareggio di bilancio sono confermati, aggiustati, ricontrattati e rottamati.
Perché Renzi potrebbe fare quel che Bersani non può fare? Non certo perché Renzi sia più “bravo” o più telegenico di Bersani. Quel che Bersani non può fare è conseguenza diretta, anzi la stessa cosa, la stessa sostanza di quel che Bersani non vuol fare. Investire una montagna di soldi pubblici sulla scuola, ricerca e università come serve al paese. Ma senza contrattare il loro uso e destinazione con i sindacati che li trasformerebbero come hanno fatto per decenni in assunzioni “ope legis” e non per competenza e merito e in sacrosanto incremenmto salariale dei docenti mortiferamente e burocraticamente e corporativamente egualitario. Bersani vuol fare la prima cosa, investire, ma non la seconda e cioè fare in modo sia investimento produttivo. Non vuole e non può Bersani puntare davvero ad una Pubblica Amministrazione efficiente perché non vuole e non può toccare gli “stati tradizionali” dell’impiego pubblico. Non può davvero abbassare le tasse su lavoro e impresa perché non vuole e non può togliere miliardi dalla spesa pubblica istituzionale e assistenziale.
Bersani può e vuole fare un sacco di cose anche giuste: rendere più equo e meglio distribuito il peso economico e sociale della crisi. Ma risolverla la crisi non può e non vuole perché lui e la “sua” gente, la sua alleanza l’Italia così come è ora, anzi come era ancora ieri, la vogliono aggiustare e curare, non cambiarle connotati e vita. Bersani promette “non racconterò favole, voglio vincere senza raccontare favole”. Giusto, encomiabile e onesto. Ma la più grande favola è quella che si raccontano ogni giorno non solo i vari Vendola, Fassina, Camusso ma anche i pensionati con pochi euro a fine mese, i giovani a paga e vita precaria, i cercatori invano di lavoro: che arriverà un governo carico carico di soldi e li distribuirà come si faceva una volta, anzi meglio perché sarà un governo più giusto. La favola è negare che quei soldi occorre crearli e come si creano oggi nessun lo sa. Si sa solo che ci siam mangiati i soldi dei figli, si sa ma i favolieri quando serve lo dimenticano pure.
Bersani sarà, se sarà, il possibile miglior governo là dove servirebbe il miglior governo possibile: quello che si assegna e assume il compito di cambiare, torcere i connotati al paese. Matteo Renzi è quello che si è avvicinato di più a capire che di questo e non di altro si tratta e quello che di più ha provato a spiegarlo al paese. Quello che meglio ha capito e meglio ha detto, “quello che” tra quelli della sinistra, del centro, della destra e di fuori dal cerchio, Grillo compreso. La gran parte della pubblica opinione ha preferito credere al “ragazzetto” che la faceva un po’ fuori dal vaso. Era ed è molto difficile sottrarsi a questa impressione. Chi però ne avesse voglia vada a risentire la decina di minuti non di più del discorso della sconfitta di Renzi. Roba che da decenni la politica, e anche l’informazione, non riesce più a produrre.
Una lingua fresca e viva, un sapore diffuso di vita vera: ho perso, ho perso io, non è stato il destino cattivo. Ho perso perché non ho portato la gente ai gazebo…ho perso e tocca a chi ha vinto…e non andrò a chiedere a me che mi tocca…perché volevamo fare una cosa grossa, non ce l’abbiamo fatta e quindi premio di consolazione non c’è…non dirò mai io ho non vinto, neanche col 40 per cento. E infine la battuta che non può non farti sorridere: “Una cosa di sinistra l’ho fatta, ho perso”. Ironia, auto ironia, prontezza, vitalità. E qualcosa in testa oltre che sul volto e sulle labbra, qualcosa che quelli che hanno letto chiamano liberal democrazia, qualcosa che nei partiti di sinistra continentali giustamente non c’è, qualcosa che invece dovrebbe esserci eccome nei partiti “democratici” all’americana. Qualcosa che dalle primarie di Bersani il leader consacrato e Renzi il leader appena nato è anche nell’elettorato dei progressisti. Come canterebbe Lucio Battisti a quelli che pensano Renzi sia un Berlusconi piccolo, “capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi, emozioni”.
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