Le notizie delle ultime due settimane sulla crisi finanziaria greca sono state tanto fastidiose quanto poco eccitanti per gli italiani. La Grecia non ci appassiona, abbiamo lo stesso atteggiamento di superiorità che tedeschi e inglesi hanno verso di noi.
Non ci rendiamo conto che invece gli altri, i paesi ricchi, ci hanno messo nella stessa casella.
Per i grandi ricchi dell’Europa del nord e per gli americani, ci sono tre paesi europei che rappresentano il ventre molle, dal quale possono partire fitte molto dolorose per il resto del vecchio continente: Grecia, Spagna e Italia, in ordine di pericolosità.
Tutto risale all’ingresso nell’euro. Questi tre paesi avevano i conti parecchio in disordine: erano i più arretrati alla fine della guerra, l’Italia in mezzo secolo ha colmato sei secoli di condizione coloniale ed è quella oggi nelle migliori condizioni; la Spagna, uscita più tardi dal fascismo, poteva contare su una struttura statale che aveva retto un impero globale, ha avuto la fortuna di un re intelligente, di un governo laico, mentre poco peso avevano i partiti confessionali. Ha vissuto un periodo di euforia grazie a una espansione abnorme dell’edilizia e ora, scoppiata la bolla, è come un pugile suonato; la Grecia è uscita stremata dalla guerra civile, dalla dittatura dei colonnelli ed è quella che ancora oggi arranca di più.
In comune i tre paesi avevano un debito pubblico abnorme, in assoluto e in rapporto alla loro capacità di produrre reddito. Gli inflessibili parametri di rapporto debito reddito che condizionavano l’ingresso nell’euro non davano speranze. Arrivarono i banchieri americani, quelli che in un anno sono arrivati a guadagnare ciascuno quanto una media azienda italiana dalla quantità di soldi che hanno fatto girare. Sono gente che dispone di cervelli sopraffini e ultra creativi e sono anche capaci di condizionare il mercato dei grandi prestiti mondiali.
Quel che fecero in Grecia, Spagna e Italia fu un’operazione banale nella sua genialità: trasformarono, per un certo periodo, parte dei loro debiti in crediti e entrarono nell’euro. Troppo bello però. I debiti non vennero cancellati, solo rinviati nel tempo. Come se io dovessi chiedere soldi a una banca: guadagno cento, ho debiti per cento, so che alla banca non va bene, al massimo accettano debiti pari a metà del mio stipendio. Per fortuna ho una casetta in campagna, che vale quel che vale ma che nessuno vuole. Allora trovo un amico al quale la vendo, ma solo per un periodo: mentre incasso i soldi che dimezzano il mio debito, firmo anche un impegno a ricomprare la casetta ma non più a 50, bensì a 60, perché chi mi impresta il denaro qualcosa ci vuole guadagnare.
Se nel tempo che passa tra ora e quando dovrò ricomprare la mia casetta non avrò ridimensionato il mio tenore di vita con adeguati risparmi e il mio reddito non sarà aumentato in misura significativa, starò semplicemente peggio di prima. Così succede in Grecia dove ora c’è un bel parapiglia.
Dicono il giornale americano New York Times e il settimanale tedesco Spiegel che le stesse cose ha fatto anche l’Italia. L’ accusa si basa tra altre fonti sullo studio di un economista italiano pubblicato nel 2001.
All’epoca della rivelazione Romano Prodi, sotto il cui governo queste porcherie sarebbero state fatte, fece il diavolo a quattro e nessuno ebbe il coraggio di dubitarne. Ora sembra che la prenda un po’ più bassa ma può contare sul più che motivato silenzio del successore Silvio Berlusconi, il cui ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, anche se dalla voglia di rinviare al mittente, cioè alla sinistra, le accuse di finanza creativa mosse alle sue cartolarizzazioni e sconcezze simili, non lo può fare, perché oggi sono loro, Berlusconi e Tremonti, ad avere il cerino in mano e la storia della Protezione civile insegna che non importa se G8 alla Maddalena e celebrazioni dell’Unità d’Italia nascono con Prodi al governo, il biasimo comunque tocca a loro.
In questo caso poi non si tratta di un po’ di mazzette e massaggi gratis, ma di un disastro monetario e finanziario di dimensioni tali che stai male solo a pensarci.
E allora stanno tutti zitti. Ma la pentola bolle.
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