Banda della Magliana, orge con i monsignori, venghino signori, avanti c’è posto. Tra le stranezze del nuovo capitolo del mistero Orlandi, degno di Ossian, il mitico bardo dell’antica Irlanda, ce n’è una finora trascurata. Vale a dire: non si rendono conto Pietro Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò che se davvero le ossa trovate nella Nunziatura Apostolica fossero quelle di Emanuela sarebbe un colpo rovinoso per la sua figura? E il ritrovamento sarebbe una ben magra consolazione per la madre e le tre sorelle. Significherebbe infatti che dicevano il vero i famosi uomini di Chiesa don Simeone Duca e don Gabriele Amorth quando sostenevano che la ragazzina vaticana di neppure 16 anni per divertirsi e avere qualche soldo partecipava a festini fin troppo allegri “in una ambasciata”. Si dà il caso che la Nunziatura sia proprio un’ambasciata.
Di tale conseguenza si deve essere resa conto invece Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella Gregori, che la vulgata – peraltro inventata dai servizi segreti della Stasi di Berlino Est – vuole sparita per la stessa mano che ha fatto sparire Emanuela. Mistero nel mistero, dunque, ma tralasciamo. E stiamo ai fatti certi. Cioè ai due argomenti principali rispolverati con il ritrovamento alla Nunziatura per rilanciare il mistero Orlandi :
1) – la trattativa che a dire di alcuni ci sarebbe stata tra il magistrato Giancarlo Capaldo e il Vaticano. La trattativa sarebbe consistita in uno scambio basato sul do ut des: il pm Giancarlo Capaldo avrebbe fatto spostare l’imbarazzante salma di Enrico De Pedis , il presunto Dandy della Banda della Magliana, dal sotterraneo della basilica di S. Apollinare in cambio della verità sulla fine di Emanuela Orlandi. Secondo i patiti – o mitomani? – di tale trattativa, le ossa trovate alla Nunziatura sarebbero appunto il secondo tempo del patto della trattativa. Il Vaticano avrebbe cioè mantenuto la parola dato che la salma di De Pedis è stata infine davvero sfrattata, sia pure ormai ben quattro anni fa. A parte quello che vedremo tra poco, il discorso non fila per alcuni motivi, semplici e certi:
– Capaldo non è più al suo posto da qualche anno, perciò il Vaticano poteva risparmiarsi l’incombenza di onorare il patto a scoppio così ritardato;
– ma soprattutto Capaldo NON poteva sfrattare un bel niente perché gli unici che potevano spostare la salma era i familiari di De Pedis, vale a dire i suoi due fratelli e la vedova Carla. Tant’è vero che la Gendarmeria vaticana di fronte al rifiuto della vedova di traslocare i resti del marito prima che la magistratura ne controllasse il contenuto ha perso la pazienza: il suo comandante Domenico Giani parlando al telefono con l’avvocato Maurilio Prioreschi, legale della signora, è sbottato in un minaccioso “Ma allora volete la guerra!”.
2) – l’accordo che a dire di alcuni ci sarebbe stato tra il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone e i familiari di De Pedis per insabbiare la vicenda con un’archiviazione immotivata e contro la volontà di Capaldo ormai “a un metro dalla verità”. Ma anche questo argomento, basato su un falso che gira da anni, è meglio trattarlo a parte. Lo si potrebbe liquidare subito dimostrando il falso, ma vale invece la pena riprenderlo a parte. Il diavolo infatti fa le pentole, ma non i coperchi… E a volte lascia anche le impronte digitali.
Veniamo dunque alla faccenda della asserita trattativa, secondo i cui cultori una sera ci sarebbe stato anche un incontro, per ratificare il patto, cioè il do ut des, nella grande e prestigiosa biblioteca vaticana tra Capaldo e un non meglio precisato prelato d’alto rango d’Oltretevere. Su Blitz è già stato spiegato che Capaldo in realtà ha “trattato” solo con il rettore della basilica, don Pedro Huidobro, che si è limitato a fare l’unica cosa che poteva fare: metterlo in contatto col Vicariato, l’ufficio che a Roma sostituisce il suo vescovo, cioè il papa. E il Vicariato non poteva fare altro che quello che ha fatto: spiegare cioè a Capaldo che non poteva essere fatto nulla senza il semaforo verde dei De Pedis. Semaforo che sarebbe rimasto rosso finché lo stesso Capaldo non si fosse deciso a controllare cosa ci fosse nella bara ponendo così fine all’ultradecennale tormentone che nella bara voleva ci fossero anche i resti di Emanuela. E magari – perché no? – con l’aggiunta di quelli di Mirella a mo’ di pacco dono per fare buon peso.
Quella sepoltura in basilica era una diventata una spina nel fianco del Vaticano anche perché, oltre al tourbillon di insinuazioni e pettegolezzi sul conto della basilica e del suo rettore degli anni ’80, rendeva inopportuna la visita che Papa Ratzinger voleva fare all’Università dell’Opus Dei, sita nel continuo e omonimo palazzo di S. Apollinare. Forse perché sperava che tirandola per le lunghe il Vaticano si decidesse finalmente a “dire la verità su Emanuela”, o forse perché era evidentemente inutile per le indagini, sta di fatto che Capaldo non si decideva a ordinare l’apertura della bara. Finché il nuovo capo della Procura, Giuseppe Pignatone non ha tagliato la testa al toro decidendo – per chiudere l’inchiesta in combutta con la vedova De Pedis, secondo i fantasiosi incalliti – che si aprisse finalmente quel benedetto sarcofago e si controllasse cosa ci fosse. La salma di De Pedis, ovviamente. E solo la sua, ovviamente.
Fonti vaticane mi spiegano che Capaldo è convinto che la verità la sappia l’ingegner Raul Bonarelli, l’ex vice capo della Vigilanza Vaticana, confluita nella Gendarmeria, inquisito negli anni ’90 dal giudice istruttore Adele Rando proprio in merito alla scomparsa di Emanuela e Mirella. Il giudice istruttore era insospettito anche dalle intercettazioni telefoniche che dimostravano un discreto interesse di Papa Wojtyla per la vicenda giudiziaria di Bonarelli e il “consiglio” di un dirigente vaticano allo stesso Bonarelli di “non dire che la cosa è andata alla Segreteria di Stato”. “Consiglio” dato la sera prima dell’interrogatorio fissato dalla Rando.
Il problema però è che l’avvocato difensore di Bonarelli era l’avvocatone Lugi Alfonso Fischetti, buon amico dello stesso Capaldo. Tanto amico che il Consiglio Superiore della Magistratura mise sotto inchiesta il magistrato per avere partecipato a una cena a casa di Fischetti con un commensale, il ministro Giulio Tremonti, coinvolto in un’inchiesta giudiziaria condotta proprio da Capaldo.
Tutto ciò spiegherebbe perché, nonostante le “rivelazioni” gridate ai quattro venti da Pietro Orlandi&C sulla asserita trattativa, Capaldo continua a tacere: NON conferma, NON smentisce e soprattutto NON fa il nome della persona o delle persone del Vaticano con le quali avrebbe stipulato il patto. Se ne facesse il nome, si potrebbe finalmente appurare se la trattativa c’è stata o se invece è – come evidente – l’ennesima bufala.
“Capaldo non può certo spiattellare ai quattro venti le proprie convinzioni su Bonarelli, cliente di un suo amico per la cui amicizia aveva già avuto guai”, spiegano mie fonti vaticane,
Forse il magistrato pensava che tirandola per le lunghe sulle verifiche nella bara nei sotterranei di S. Apollinare il Vaticano finisse per cedere, o almeno che gli “soffiasse” qualcosa?
“Ma non c’era e non c’è proprio nulla su cui cedere o da “soffiare”. Lo dimostreranno anche le conclusioni sulle ossa della Nunziatura. Forse proprio per questo c’è chi intende tirarla anche questa volta per le lunghe”.
Chi è questo “chi”?
The show must and can go on. E in quest’ottica, tutto fa brodo: la Banda della Magliana, le orge con i monsignori…Forse è il momento di tornare a Totò: ma mi faccia il piacere…