Minzolini, un capro espiatorio

ROMA – La conclusione della vicenda Minzolini in Rai è in linea con tutta la sua conduzione: vale a dire, insoddisfacente e criticabile. Qui non si tratta di difendere o accusare in modo partigiano e prevenuto il collega Augusto Minzolini, il cui modo di dirigere il TgUno non ci è mai piaciuto, ma di evitare il solito capro espiatorio sul quale scaricare responsabilità che sono strutturali, e quindi di fatto politiche.

Intanto vale anche per lui la presunzione d’innocenza, come per tutti, ma a differenza di altri casi, ben più importanti, si è scambiato per una sentenza di condanna definitiva quello che è solo un rinvio a giudizio. Rinvio peraltro discutibile, che non convince del tutto. Non si può certo confondere tra il TgUno di Minzolini, sceso ai livelli dove è sceso, e i diritti di Minzolini, che certo non sono legati all’audience del suo Tg.

Lo volevano sostituire per crollo dell’audience? Avrebbero potuto farlo, così come si sostituisce prima del previsto un direttore di giornali se c’è un crollo prolungato delle vendite. Invece la soluzione scelta appare una scusa, un epilogo forzato e moralista in un epoca in cui il moralismo rischia di provocare danni massicci, effetto boomerang dell’eccessivo e troppo prolungato sbraco precedente. C’è da dire che se la linea difensiva di Minzolini appare piuttosto debole da un lato non è invece per nulla debole da un altro.

Cominciamo dal lato debole. Lui sostiene che i 75 mila euro – per l’esattezza 74.636,90 – spesi con la carta aziendale in 16 mesi – dal 28 luglio 2009 al 30 novembre 2010 – sono stati impiegati per pranzi e trasferte per incontrare informatori, e sotto questo profilo ha tutto il diritto e anzi anche il dovere di NON farne i nomi. Però a giudicare da ciò che il Tg1 mandava in onda, notizie poche e per di più quasi sempre d’agenzia, non si capisce che tipo di informazioni dessero quegli ospiti. In ogni caso: anche ammesso, ma non concesso fino a sentenza definitiva, che quello di Minzolini sia un peculato, il problema vero – di una intera struttura pubblica e non di una singola persona – è come mai in Rai nessuno se ne sia accorto.

Le amministrazioni esistono in tutte le aziende, anche nei giornali, testate Rai comprese, e servono tra l’altro per controllare le spese dei dipendenti, direttori compresi. E poiché le amministrazioni sono retribuite, come i Minzolini, pretendere che funzionino a dovere non è qualcosa di eccessivo. Perché c’è voluta la Finanza per accorgersi o sospettare che nelle spese del direttore del Tg1 non tutto quadrava? Colpire i Minzolini senza colpire chi aveva gli occhi chiusi o la bocca tappata serve a poco o a niente: i Minzolini passano, le storture restano.

Veniamo ora al lato niente affatto debole e più che plausibile della difesa di Minzolini. Lui afferma che in Rai sapevano e di fatto erano d’accordo. D’accordo su cosa e perché? Lo ha spiegato in una intervista il collega e suo amico Franco Bechis: in sintesi, le spese extra con la carta di credito Rai sarebbero dovute al fatto che in viale Mazzini al momento del contratto si sono dimenticati di inserire la clausola dell’esclusiva non solo per gli interventi in video, ma anche per le collaborazioni scritte, quali per esempio i commenti, per testate giornalistiche non televisive.

A conti fatti, la spiegazione offerta da Bechis è plausibile. Infatti 75.000 euro diviso 16 mesi fa 4,687,5 euro al mese. Si tratta di una cifra che effettivamente un professionista come Minzolini può mettere assieme senza difficoltà con collaborazioni di vario tipo ai giornali cartacei, specie dopo essere stato valorizzato con la nomina alla direzione del Tg1.

Ecco allora che torniamo alle responsabilità della Rai, non di Minzolini. Gli accordi contrattuali si fanno per iscritto, e non per gentile concessione a voce o per tolleranza più o meno esplicita. In definitiva, in assenza di clausole chiare messe per iscritto chiunque nei piani alti di viale Mazzini avesse voluto mettere il difficoltà Minzolini, per motivi politici, professionali o anche personali, avrebbe potuto farlo tirando in ballo proprio le spese che ha tirato in ballo la Finanza.

E’ possibile e anzi probabile che Minzolini abbia ragione, visto anche che almeno nel caso di un ufficio di corrispondenza da New York la Rai qualche anno fa se n’è accorta eccome che qualcuno con le spese ci andava troppo disinvolto. Se questa volta invece la Rai non ha eccepito nulla, e per eccepire ha avuto ben 16 mesi di tempo, però è intervenuta solo quando è scoppiato lo scandalo: come si vede, è più che possibile sia vero che il vertice Rai sapeva ed era d’accordo.

Quello che ormai si chiama minzolinismo non ci piace, ma Minzolini su una cosa ha sicuramente e comunque ragione: nell’accusare il direttore di Raiuno Mauro Mazza di essere rimasto assai poco coraggiosamente zitto anziché chiarire come suo dovere la faccenda. Mazza di recente lo abbiamo visto più volte ridere allegramente da Fiorello ne “Il più grande spettacolo dopo il week end”.

Oltre che ridere e assentire con Fiorello sul fatto che in Rai le parole profilattico, merda e culo oggi si possono dire, Mazza poteva anche chiarire, magari non da Fiorello, se è vero o no che certe dimenticanze in Rai si sanano con accordi taciti. Eventualità per la quale ci sarebbe francamente non molto da ridere.

Non sono poche le cose e le persone da cambiare in Rai, e francamente non solo in Rai, ma è sempre un pessimo segnale quando i cambiamenti avvengono sulla ruota della magistratura anziché per motivi professionali e per decisione autonoma di chi è preposto a decidere e pagato per farlo.

Abbiamo detto più volte che Berlusconi a palazzo Chigi era una iattura, ma aggiungendo che male faceva la sinistra a sperare che lo sfrattassero i magistrati anziché i rapporti di forza politici e i risultati elettorali, che, quali che essi siano, sono pur sempre una espressione democratica delle scelte degli italiani.

L’epilogo della vicenda Minzolini è molto discutibile, più di facciata che di sostanza, sembra una scelta fatta più per compiacere il neo governo Monti (e il grande scontento dell’opinione pubblica contro “le caste”) che per motivi di effettiva giustizia, ma sono discutibili anche alcune scelte del piano economico approvato con sorprendente unanimità e velocità il 29 novembre. Si chiudono infatti le sette sedi estere che costano di meno (Beirut, Buenos Aires, Istanbul, Madrid, Mosca, Nairobi, Nuova Delhi), nelle quali è presente un solo giornalista e dove il costo del lavoro del personale locale è basso.

Non si tiene però conto dei costi di chiusura. Per quanto riguarda le altre otto sedi che resteranno in vita si pensa di chiudere gli uffici e di esternalizzare il lavoro, con grande aggravio dei costi. Dov’è il risparmio? In un artificio contabile, si direbbe. La Rai potrà infatti dire di avere abbattuto i costi fissi delle sedi (affitti, personale) cancellandoli. Però i costi dei servizi “esternalizzati” dalle otto sedi restanti ricadranno nei budget delle testate che li richiederanno, con costi molo più alti. Tutto ciò è un modo di fare serio?

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