“America is back!”, ha scandito il nuovo presidente USA Joe Biden il 5 febbraio nella sua prima riunione al Dipartimento di Stato, equivalente del nostro ministero degli Esteri.
“America is back!”, “L’America è tornata!” ha ripetuto Biden il 20 gennaio, con l’aggiunta che “è tornata anche la NATO”, ai premier dell’Unione Europea. Impegnati a Monaco di Baviera nella Conferenza sulla Sicurezza.
E dopo soli sei giorni alle parole sono seguiti i fatti. Biden “in risposta a tre attacchi contro basi americane in Iraq” ha autorizzato il bombardamento in Siria con aerei USA.
Contro miliziani asseritamente sostenuti dall’Iran e ritenuti responsabili dei tre attacchi missilistici del 15 febbraio scorso contro le forze USA in Iraq. Prove che con i tre attacchi c’entrassero i miliziani bombardati per rappresaglia? Nessuna. Esattamente come non ce n’erano che l’Iraq stesse producendo bombe atomiche, armi chimiche e batteriologiche. Quando nel 2003 con l’accusa di produrne venne invaso dagli USA e alleati, Italia compresa.
Grande il battage sulle grandi differenze tra il nuovo presidente Usa e il suo detestato predecessore. Ma il debutto militare di Biden ricalca a mo’ di fotocopia l’azione militare di Donald Trump del 3 gennaio dell’anno scorso. Quando l’allora inquilino della Casa Bianca ordinò il lancio di missili per uccidere in Iran il generale Soleimani. Colpevole, a detta di Trump, di “preparare nuovi attacchi”, anche se non si è mai saputo quali e dove. Vale a dire, come al solito: prove zero.
L’intervento in Siria, già in atto da anni con consiglieri militari non solo inglesi e con massicce forniture di armi ai ribelli, ricalca non a caso uno degli scenari esaminati dal think tank statunitense Saban Center per l’Iran. Lo scenario a base di sobillazione, rivolta e armamento delle minoranze etniche.
Biden contro la minoranza alawita al governo in Siria
In Siria si approfitta del fatto che il clan al governo è composto in maggioranza da alawiti, una minoranza nel Paese. Così come erano una minoranza in Iran i sunniti del clan di Saddam Hussein al potere.
I sunniti in Siria sono la maggioranza, ma eccetto pochi uomini sono tenuti accuratamente fuori dalle istituzioni di governo. Che resta saldamente in mano ad alawiti, drusi e cristiani. Le minoranze curda e araba sono in posizione defilata la prima. Interessata più che altro alla propria indipendenza. E a uno Stato con i curdi turchi e quelli iracheni, e pressoché assente la seconda.
A Biden non interessa che i cristiani temono persecuzioni
I drusi e i cristiani temono che la caduta dell’attuale regime abbia come conseguenza la fine dei propri diritti e anche della propria sicurezza.
La Cina, la Russia e l’Iran sostengono Assad, ognuno per i propri concreti motivi e non certo per questioni etiche o umanitarie. Gli USA, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita e Turchia sostengono, finanziano e armano i ribelli. Di certo neppure loro per ragioni umanitarie o eriche. Ma come prima tappa per tentare imbrigliare l’Iran. Insomma, un esperimento per capire se è replicabile in Iran.
Gli USA inoltre hanno appoggiato i ribelli “democratici” siriani perché speravano di poter cacciare i russi dal porto siriano di Tartus. Una cui porzione è stata presa in affitto per 40 anni. E è rimasto l’unico accesso nel Mediterraneo per la flotta del Cremlino dopo la dissoluzione dell’URSS.
Per impedire l’accesso al Mediterraneo della flotta russa gli USA e l’Europa non hanno riconosciuto il referendum del 16 marzo 2014. Che in Crimea ha scelto di far parte della Russia anziché dell’Ucraina, l’ex Stato sovietico diventato indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Ucraina, perno della politica nel Mar Nero
Ucraina indipendente e subito membro per ora solo associato dell’Unione Europea. Oltre che in procinto di entrare nella NATO. E’ bene ricordare che la NATO è l’alleanza militare nata dopo la seconda guerra mondiale in funzione anti Mosca. Vale a dire anti Unione Sovietica prima e poi anti russa.
La Crimea non ha confini terresti con la Russia. Perciò in mano all’Ucraina avrebbe permesso di sfrattare la flotta russa dal Mar Nero. Dove ora si esercitano anche navi da guerra USA e della Nato. E avrebbe permesso anche il controllo del passaggio in questo mare di navi russe dal mare d’Azov attraverso lo stretto di Kerč. Controllare tale stretto significa avere la possibilità di impedire alle navi russe di passare dal Mare d’Azov al Mar Nero e quindi al Mediterraneo.
L’accordo tra Mosca e Damasco ha consentito alle unità navali della Flotta Rossa di avere una base stabile, anche se minuscola, nel Mediterraneo Orientale. Realizzando un vecchio sogno delle Russia di poter disporre di un accesso e di una presenza nei “mari caldi”, più utili per i commerci internazionali. Tutti i suoi porti infatti si trovano nei “mari freddi” (Murmansk, Petropavlovsk) o in specchi d’acqua che implicano il passaggio di stretti in controllati da Paesi potenzialmente ostili (Sebastopoli, Novorossiysk, Vladivostok).
In Siria grande ritorno di Russia e Turchia
Ma come dice il proverbio non tutte le ciambelle riescono col buco. E la ciambella siriana oltre a non essere riuscita col buco è diventata per gli USA più che altro un boomerang a tappe. In Siria hanno infatti messo radici la Russia e la Turchia. Vediamo come.
Istituita da Putin ed Erdogan nel corso del loro incontro del 9 agosto 2016 a S.Pietroburgo, si è svolta a Mosca due giorni dopo, l’11 agosto, la prima riunione della Commissione mista russo-turca sulla Siria. Era composta da rappresentanti delle forze armate, della diplomazie e dei servizi segreti dei due Paesi.
La sua nascita conferma che la Siria è un problema cruciale sia per Ankara sia per Mosca. E che la sua risoluzione impone un coordinamento tra le due capitali. Le quali partono da posizioni contrapposte. La Turchia sostiene l’opposizione siriana e alcuni gruppi di ribelli armati, non però l’Isis e an-Nustra. La Russia invece sostiene Bashar al-Assad. Entrambe le capitali si sono rese conto che l’integrità territoriale siriana è da preferire alla balcanizzazione perseguita dai ribelli e con la quale gli Usa sperano di poter sloggiare i russi da Tartus.
Sospetti sugli Usa per il mancato colpo di Stato in Turchia
Il riavvicinamento tra Russia e Turchia è stato favorito anche dal sospetto che gli USA abbiano in qualche modo dato un “aiutino” al tentativo di colpo di Stato. Messo in atto da una parte delle Forze armate turche il 15 luglio 2016. Per rovesciare il regime del presidente Recep Tayyip Erdoğan e prendere il potere nel Paese. Il giornale turco Yeni Safakavere ha indicato infatti nel generale americano John Campbell, ex comandante delle forze Usa in Afghanistan, il finanziatore del tentativo di golpe con due miliardi di dollari passati dalla CIA.
A spese della Siria si è esibito anche Israele con bombardamenti aerei. Gli ultimi dei quali sono – per ora – quelli sulla sua parte orientale nelle aree di Deir ez-Zor e Albu Kamal. Ufficialmente Tel Aviv sostiene che si tratta di azioni contro i tentativi dell’Iran di costruire una macchina da guerra in Siria.
Ma c’è anche il tentativo di colpire la Siria nelle sue capacita scientifiche. C’è stato infatti un attacco missilistico al Syrian Research Center (CERS), a nord di Damasco. Che era già stato bombardato nel 2018 e nel 2019. E teniamo presente che l’esercito israeliano afferma di aver distrutto nel 2007 con un bombardamento aereo un sospetto reattore nucleare nella provincia siriana di Deir ez-Zor. All’Associated Press un alto funzionario dell’intelligence USA il 26 gennaio di quest’anno ha spiegato. Le informazioni per poter effettuare almeno i bombardamenti più recenti sono state fornite dal Pentagono.
Il gioco di Russia e Turchia in Siria
La Russia vuole mantenere in Siria oltre al porto di Tartus anche la presenza delle forze armate entrate per sostenere il governo di Assad, la Turchia mira invece a mantenere la propria influenza sulle zone della popolazione siriana turcomanna, insediata nel nord. La quadratura del cerchio non sarà facile. Ma sarà facilitata dal fatto che la Russia sa di avere bisogno della Turchia per non essere tagliata fuori dall’utilizzo del mar Nero come anticamera dei commerci col Mediterraneo, cioè con l’Europa e l’Africa. Sta di fatto che in Siria oggi la presenza militare e diplomatica russa e turca è un dato di fatto, come è un dato di fatto che i piani di frantumazione territoriale mandati avanti da parte occidentale con la “rivoluzione democratica” sono stati un fallimento. Almeno per ora.
Mosca ha approfittato della sua accresciuta influenza in Siria per ampliare anche sul piano civile il “suo” porto di Tartus. Il 18 gennaio 2017 Mosca e Damasco hanno firmato un accordo per l’espansione e la modernizzazione della parte russa del porto di Tartus contestualmente al rinnovo del contratto di locazione per 49 anni, che sarà automaticamente rinnovato ogni 25 anni a meno che una delle due parti non notifichi, con un anno di preavviso, la volontà di rescinderlo attraverso canali diplomatici e in forma scritta.
Accordo fra Mosca e Damasco
Con tale accordo la Russia ha a tutti gli effetti autorità legale sulle strutture della porzione di porto di sua competenza. L’accordo permette alla Russia di mettere in grado il “suo” porto di ospitare anche 11 navi alla volta, comprese quelle a propulsione atomica di grandi dimensioni come i sottomarini o gli incrociatori classe Kirov. Come compenso per le grandi spese sostenute dalla Russia per aiutare militarmente il governo di Assad la Siria ha concesso al Cremlino anche l’uso permanente della base aerea di Hmeimim e di costruire un aeroporto a Qamishli, nella nordest del Paese. E così nel dicembre 2019 Mosca ha deciso di investire 500 milioni di dollari nei prossimi quattro anni nella modernizzazione del porto, creando 3.700 posti di lavoro.
L’investimento russo a Tartus non è solamente di tipo militare e non riguarderà esclusivamente il suo settore. Per espandere la sua presenza commerciale sui mercati del Medio Oriente la Russia a Tartus costruirà infatti anche un hub per granaglie, cioè per grano russo. Inoltre intende rimettere in funzione alcune sezioni della ferrovia che attraversa la Siria e l’Iraq e costruirne altre nuove per creare una linea dal Mediterraneo al Golfo Persico aumentando così il flusso delle proprie merci attraverso il porto siriano. Mosca inoltre guarda oltre. Ha già investito 200 milioni di dollari per ripristinare e ingrandire l’industria dei fertilizzanti siriana, e nel quadro degli aiuti umanitari ha donato altri 17 milioni di dollari direttamente al governo siriano e 100 mila tonnellate di grano. Una vera manna per il devastato Paese siriano.
Un posto al sole nel Mediterraneo
Il quadro d’insieme suggerisce che Mosca voglia fare della Siria uno strumento utile a tre scopi: intaccare l’egemonia economica statunitense, ritagliarsi un “posto al sole” e non lasciare mano libera totale alla Cina, che con investimenti enormi stanno acquistando e creando pezzi importanti nelle infrastrutture del Medio Oriente, del Nord Africa e nella stessa Europa con il mega progetto della Nuova Via della Seta (One Belt One Road). Progetto al quale la Russia affianca in linea più o meno parallela sul territorio il suo mega progetto Razvitie, cioè a dire Sviluppo. Due progetti, in corso di realizzazione, che cambieranno la realtà geopolitica del pianeta.
La parte di Medio Oriente che va dal Sinai alla Turchia, e in particolare la Siria, è lontana dall’essere sviluppata come invece le permetterebbero sia la posizione strategica sia le sue risorse potenziali. In Siria il Cremlino grazie all’intervento militare pro governo di Assad si propone concretamente come punto di riferimento e partner per il suo sviluppo. Inoltre la linea ovest-est che collega Tartus al Golfo Persico passando per l’Iraq è diventata interessante e appetibile grazie alla nuova centralità del Mediterraneo e al fatto che l’Iraq nonostante o a causa dell’invasione USA oggi è molto più vicino all’Iran – non solo spiritualmente e religiosamente per il comune sciismo, ma anche ed economicamente – di quanto lo fosse all’epoca di Saddam Hussein, impiccato dagli statunitensi a coronamento della loro invasione militare.
Insomma, per Washington un altro boomerang.
“L’America è tornata!”. Ma – a parte il fatto che si tratta degli USA e non dell’America, continente che comprende 35 Stati indipendenti – neppure l’applauditissimo Biden ha la bacchetta magica.