ROMA – Gli interventi sulle pensioni cominciano a somigliare alla guerra di trincea del 1915-1918. Allora venivano lanciate all’assalto le truppe di una fanteria di giovani leve destinate a essere massacrate in una lunga serie di offensive prive di senso e che se la passavano male anche quando le lasciavano ferme in trincea. Il tutto condito con retorica patriottarda utile solo a coprire le magagne dell’apparato di comando politico e militare. Oggi il decreto “salva Italia” lancia all’assalto non più le classi di giovani, ferme nella trincea della scarsità di lavoro, ma quelle degli anziani e dei vecchi che ormai dal lavoro sono fuori. Ora come allora non manca la retorica, la confusione e la scarsa efficacia. Vediamo perché.
Il chiodo battuto e ribattuto ormai da mesi dice che il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo è la riforma delle riforme, il modo per abbattere il debito pubblico e sconfiggere il rischio default. Non a caso al ministero del Welfare è stata messa Elsa Fornero, “economista esperta di previdenza sociale”, e si è premuto il piede sull’acceleratore del sistema contributivo per lasciarsi alle spalle quello retributivo. Come è noto, il sistema contributivo calcola le pensioni in base al contributo effettivamente versato agli enti previdenziali nell’arco dell’intera vita lavorativa, mentre il sistema retributivo le calcola in base alle retribuzioni percepite a fine carriera. Il problema però è che in Italia il sistema contributivo puro esiste già da 16 anni, per l’esattezza dal 1° gennaio 1996, applicato a chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995, mentre il sistema contributivo “impuro”, che incorpora una parte di retributivo, esiste anch’esso da 16 anni per chi alla data del 31 dicembre 1995 risultava al lavoro da meno di 18 anni.
Il sistema retributivo puro non viene applicato alle decine di milioni di lavoratori in attività, bensì solo a qualche centinaia di migliaia di occupati. I quali, per giunta, lavoreranno ancora in media solo tre anni a testa prima di essere messi in pensione. Se la matematica non è un’opinione, i risparmi nell’arco di un quinquennio, periodo nel corso del quale il retributivo puro sarà sicuramente scomparso, ammonterà solo ad alcune centinaia di milioni di euro. Quisquilie. Che non bastano certo a eliminare velocemente il debito pubblico. Ma c’è di più. I risparmi in questione, fatti sulla pelle degli anziani, non vengono destinati ai più giovani, non vengono cioè destinati a creare occupazione. Chiacchiere a parte, è dalla riforma del governo Dini – anno 1995 – che ai giovani vengono destinate solo retorica e intenzioni rimaste tali, ma utili a coprire la realtà. Realtà che è fatta di precarizzazione dei rapporti di lavoro e di destrutturazione del suo mercato. Ma anche se queste centinaia di milioni di euro risparmiati venissero investite per creare posti di lavoro cambierebbe poco: si tratterebbe infatti solo di una goccia rispetto il vasto mare del reale fabbisogno per far ripartire davvero lo sviluppo.
Come che sia, nessuno sa spiegare per quale motivo devono farsi carico del destino giovanile solo queste centinaia di migliaia di lavoratori residui, per giunta cambiando loro le regole del gioco poco prima dell’arrivo al traguardo, e quindi senza nessuna possibilità di porvi rimedio. Cornuti e mazziati forse no, ma cornuti e contenti forzati sì: contenti di avere “salvato l’Italia”.
Veniamo ora al blocco dell’indicizzazione delle pensioni “più alte” rispetto la svalutazione. Dal 1998 è la terza volta che si ricorre a tale misura, ma è la prima volta che la si fa durare due anni filati, senza nessun recupero futuro di quanto perso nel biennio. Poiché la svalutazione corre ormai tra il 4 e il 5% l’anno, ciò significa che la sforbiciata delle pensioni “più alte” sarà una vera e propria mutilazione. Che non è del tutto certo sia costituzionalmente legittima. Il 12 novembre 2010 la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza, la n. 310, con la quale il blocco della rivalutazione monetaria delle pensioni lo ha sì dichiarato legittimo, ma con riserva. La sentenza contiene infatti anche un ben preciso paletto: “Dev’essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza, v. sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. Come se non bastasse, nel 1994 la Corte con la sentenza n. 30 aveva già scritto a chiare lettere: “C’è uno scostamento irragionevole tra i trattamenti dell’Inps e l’effettiva variazione del potere d’acquisto”. Il che equivale a dire che per le pensioni l’adeguamento in vigore non basta.
Tuttavia ora lo si vuole sospendere per la terza volta e per due anni di fila. E’ come dire che un decreto legge blocchi per due anni gli aumenti salariali e di stipendio già sanciti dai contratti collettivi di lavoro nazionali e aziendali. La pensione infatti non è un regalo, bensì – come la liquidazione a fine rapporto di lavoro – uno stipendio differito, i cui quattrini sono stati accantonati prelevandoli man mano dalle buste paga del lavoratore. Veniamo ora al prelievo proposto dal ministro Fornero del 25% sulle pensioni superiori ai 200 mila euro l’anno, prelievo la cui durata non mi pare sia stata specificata: un anno, due, tre…. ? Prelievo che, si noti, va ad aggiungersi al blocco della rivalutazione, perciò sale almeno al 30%. Una bella sberla! Che sarebbe più utile sferrare invece ai rentier. Il ministro ha dichiarato che “queste pensioni non sono il corrispettivo dei contributi versati”.