La parola d’ordine “Coesione nazionale”, lanciata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha avuto grande successo ed è diventata il nuovo tormentone estivo e il nuovo imperativo categorico nazional popolare. Grazie alla “coesione nazionale” è stata approvata a tempo di record anche dalla sinistra una manovra finanziaria che spreme ancor più le tasche degli italiani, in particolare quelle degli italiani che non nuotano nell’oro. Con molto opportunismo, Silvio Berlusconi si è infilato nella scia e usa la “coesione nazionale” per restare aggrappato alla poltrona di capo del governo. Ma non è questo il problema.
Il problema è che che la “coesione nazionale” sa di deja vu, di cose vecchie di oltre 30 anni fa, ed è strano che nessuno se ne renda conto. In cosa differisce infatti la “coesione nazionale” in versione Napolitano dall'”austerità dei lavoratori” lanciata a suo tempo, per l’esattezza nel 1977, da Enrico Berlinguer quando esisteva ancora il Partito Comunista Italiano e lui ne era il segretario? Guarda caso, dal Pci proviene anche Napolitano. Il quale in fin dei conti non ha fatto altro che rammodernare e cambiar nome alla trovata dell'”austerità dei lavoratori” di Berlinguer, il quale anziché sfornare una linea politica, una strategia e delle proposte per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e quindi dell’intera società, con la linea dell'”austerità” potè sostenere che il problema non era ottenere aumenti salariali e di diritti per le classi subalterne, ma affermare invece “la superiorità della classe operaia e dei lavoratori” facendo adottare loro l’austerità, da contrapporre agli sprechi e alla sete di profitto da parte dei padroni e della borghesia parassitaria in generale.
Si trattava in fondo di un modo un po’ contorto per dire che rinunciare a battersi per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita, stringendo ancor più la cinghia, significava essere più generosi e responsabili della classe dei padroni e loro alleati. Insomma, un discorso più moralista che politico, più da leader clericale che da leader politico.
Ora Napolitano ha lanciato la coesione nazionale, e non pago del successo del suo debutto con la finanziaria ha già chiarito che in futuro saranno necessarie “altre prove di coesione nazionale”, con grande gioia di Berlusconi, che si vede così spianare la strada fino alla fine naturale della legislatura, e con molta minore gioia di chi, al solito, dovrà subire altri prelievi e altri salassi. Di chi dovrà cioè dare prova di “austerità”, stringendo ancor più la cinghia. Fin dai tempi di Mussolini di fronte al baratro si grida che “siamo tutti italiani!”, però c’è sempre molta bella gente che è più italiana degli altri e se la sfanga alla faccia degli altri italiani. Ma a parte questo, in cosa differisce il rigore predicato da Napolitano da quello predicato da Berlinguer? Per carità, le somiglianze di linea sono legittime anche in politica, però il problema è un altro. Vale a dire: l’austerità predicata e ottenuta da Berlinguer non è servita a molto, almeno sul lungo periodo, infatti siamo punto e a capo, soprattutto i lavoratori e le famiglie, ormai unico ammortizzatore sociale, devono di nuovo stringere pesantemente la cinghia. Che garanzie ci sono che l’austerità predicata e almeno per ora ottenuta da Napolitano serva a qualcosa? Più in generale: visto che un’altra manovra “lacrime e sangue” c’è stata nel ’92, con una marea di privatizzazioni che ora si scopre non sempre sono state un bene, e poi un’altra per entrare nell’euro, più quasi ogni anno un “manovrina” che per quanto “ina” ci porta pur sempre via dei quattrini, che senso ha ricorrere sempre alle (altrui) “lacrime e sangue” se non si è mai capaci di varare una politica che eviti il susseguirsi ciclico dei salassi?
Sì, certo, anche il ministro Tremonti dice che o si mangia questa minestra o finiremo tutti giù dalla finestra, anzi finiremo tutti “come il Titanic, e non si salveranno neppure i passeggeri di prima classe”. Il guaio però è che intanto quelli che pagano sempre e si salvano sempre poco e male sono i passeggeri di secondo classe…. Mentre questi devono fare ancora sacrifici e sono tenuti al rigore, si scopre che buona parte della classe politica e gran parte di quella affaristica se la gode a tutto spiano, calpestando le leggi, accumulando quattrini, continuando la bella vita da scialo continuo, nonché passando da uno scandalo all’altro, da una ruberia e vessazione a un’altra ruberia e vessazione, dalla P2 alla P3 e alla P4…. in attesa della prossima P. Insomma, la politica dei nostri giorni, da quella del governo a quella delle opposizioni, non ha finora prodotto nulla di nuovo. E non lo ha prodotto neppure Napolitano, che certo non può fare politica, ma solo il notaio e il vigile del rispetto delle regole.
Le privatizzazioni tanto decantate in passato per “salvare l’economia italiana” hanno ridotto società una volta floride come la Sip, che si occupava dei telefoni, a società in forte passivo come Telecom, l’erede privata della Sip pubblica. Oggi si parla di privatizzare l’ Eni! Tradotto in italiano, tutto ciò significa che nonostante le periodiche “lacrime e sangue”, e annessa retorica patriottarda, stiamo per restare in mutande, cioè senza più una struttura industriale degna di questo nome e senza una politica energetica. Per amore del vero, i privati ce l’hanno messa tutta di loro per mandare a pezzi, tra lamenti pubblici e soldi in Svizzera, la poca grande industria che l’Italia aveva: la riduzione (termine oggi molto in voga nella gastronomia post moderna che qui ci sta proprio bene) della Fiat è un caso che sta verificandosi in questi giorni, con il complice silenzio di tutti, sindacati in testa.
Non vorrei parere irriverente, ma finora l’unica cosa chiara è che, oltre ad avere magari involontariamente dato nuovo insperato ossigeno Berlusconi, il presidente Napolitano accumula sempre più chance bipartisan per una eventuale sua rielezione al Colle. Buon per lui. Però forse l’Italia ha bisogno di voltar pagina e di aria nuova ovunque. Anche nelle manovre finanziarie…
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