Nel mistero di Emanuela Orlandi un lampo e una strada tutta da esplorare. Marco Fassoni Accetti da quando conosce Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi? Da quando si è materializzato a Chi l’ha visto? nel 2013, con un flauto che asseriva essere quello della ragazza scomparsa il 22 giugno 1983 e anche autoaccusandosi di aver partecipato a un rapimento, finto? Oppure da molto prima, almeno 30 anni prima, subito prima o subito dopo quel giorno?
“Marco Accetti Del periodo mestruale di tua sorella ne sapevano solo i familiari stretti, chi di loro me lo avrebbe raccontato? Il tuo negazionismo esagerato, il rigorismo di pretendere la perfezione ti ha rovinato. Io ho portato infiniti indizi e prove. il 5×100 di questi era sufficiente per istruire in processo. Tu fai il gioco dei giudici, nel non accettare tale realtà.Pietro Orlandi Se proprio vogliamo, mia madre ne parlò i primi tempi, non era più una cosa strettamente famigliare. Sbaglio o anche tu i primi tempi mi facesti una telefonata, quando io mi fidavo di tutto e tutti e soprattutto della buona fede e della tua volontà nell’aiutarci, e ti parlai di quel fatto perché tu stesso avevi dubbi, come se ne avesti sentito parlare?”.
Nella foga del rispondere ad Accetti, Pietro Orlandi potrebbe non essersi reso conto che l’espressione “i primi tempi” – utilizzata sia per “mia madre ne parlò”, e quindi sicuramente riferita al 1983, sia per l’espressione “mi facesti una telefonata” – sta a indicare il 1983 anche per la telefonata tra il fratello di Emanuela e il fotografo romano. Che insiste ad accusarsi di averla rapita e ora “rivela” anche di avere partecipato alle sevizie e torture e di averne registrato le grida e i lamenti sul nastro fatto trovare dopo sole tre settimane dalla scomparsa, “volontaria” o no che essa fosse.
L’asserita volontà di Accetti di aiutare gli Orlandi e il suo informarsi su Emanuela parlando con Pietro già nell’83 sono cose talmente clamorose da risultare incredibili. Tanto incredibili e sinistre da far pensare che per “primi tempi” riferiti alla telefonata con Accetti forse Pietro intenda i primi tempi della comparsa con “il flauto di Emanuela”, cioè l’aprile 2013. Forse. Stando però alla grammatica italiana, il significato è quello che riferisce tutto a 33 anni fa. Se così fosse, sarebbe davvero il caso di riaprire l’inchiesta giudiziaria sul “supertestimone e reo confesso” sempre più somigliante a Raskolnikov, protagonista di Delitto e castigo, il romanzo di Dostoevskij.
Marco Fassoni Accetti, fotografo romano molto capace, entrato nel mistero di Emanuela Orlandi come “supertestimone e reo confesso” è stato cestinato dai magistrati come affabulatore torrenziale, accusato anzi di calunnia e autocalunnia, nelle ultime settimane si è scatenato più che mai su Facebook e dintorni. La molla di questo improvviso presenzialismo, dopo qualche mese di silenzio, sembra essere la richiesta dei magistrati Simona Maisto e Ilaria Calò di archiviare anche le accuse di calunnia e autocalunnia a causa della sua non perfetta capacità di intendere e di volere.
“Poco fa ho sentito telefonicamente Marco Accetti, il quale testualmente fa sapere: so bene chi fossero i tre uomini le cui voci sono state cancellate dal noto nastro di via della Dataria; so chi fu ad adoperarsi per la manipolazione dello stesso; su uno dei lati è registrata la voce di Emanuela Orlandi, facilmente desumibile dal confronto con altra registrazione genuina, nonché suoi gemiti e lamenti, in relazione a condotte che non è il caso di riferire in questa sede”.
“Quanto al nastro fatto ritrovare in via della Dataria, [Accetti] aggiunge un particolare importante: “quando registrammo la voce di Emanuela Orlandi eravamo nella casa di Monteverde, mentre il comunicato lo lessi dentro il nostro camper, tenendo acceso un registratore che produceva un rumore costante di sottofondo, per evitare che si sentisse il traffico o altri rumori che consentissero di localizzarci”
“La Orlandi era una ragazza buonissima e molto ingenua. Noi facemmo un sequestro psicologico, le dicemmo: “se tu esci [cioè se ritorni a casa, ndr] rovini i tuoi, tuo padre può perdere il lavoro”, ma nessuno la forzò fisicamente, assolutamente. Ci fu un modo per circuirla e non so come abbiamo fatto a resistere fino a dicembre. [….] La ragazza aveva un’innocenza, aveva queste grandi virtù, riuscimmo a fermarla tutti quei mesi ma non per mia personale volontà, ci fu chiesto e io non potevo più tirarmi indietro. Se lo avessi fatto e poi, senza il mio controllo e ausilio, le cose fossero degenerate poi comunque legalmente venivano a cercare anche me. Ho dovuto seguire la cosa fino all’ultimo”.
“[…] mi è capitato di passeggiare con lei nel centro di Roma, una volta andammo nella zona del Ghetto e parlammo di un progetto di film. Quando usciva dal luogo in cui l’avevamo portata, le facevamo indossare una parrucca. La incontrai con una certa regolarità dal 22 giugno fino alla fine di quell’anno, il 1983. Non si spostò mai da Roma e dal litorale, dove abitò in due appartamenti. Molte volte dormì in un camper. Le consentivamo di suonare il flauto, le comprammo un pianoforte. Lei sapeva che suo padre era d’accordo che non tornasse a casa, perché aveva avuto dei problemi che, grazie al suo momentaneo allontanamento, sarebbero stati risolti. All’inizio si sentiva un po’ come un’eroina, tra noi si era instaurato anche un certo affetto”.