Emanuela Orlandi, 30 anni dopo l’inchiesta sulla sua scomparsa si avvia lentamente verso l’archiviazione, anche se non prima del gennaio o febbraio dell’anno prossimo. L’estrazione del Dna da migliaia di ossa umane nei laboratori della polizia scientifica di Roma e Milano procede infatti a rilento, con scetticismo crescente.
Ma non è celere neppure la determinazione dell’età di appena una quindicina di ossa spedite in un laboratorio degli Usa specializzato nella datazione di reperti, soprattutto archeologici, con il metodo del carbonio radioattivo, detto anche radiocarbonio. Non si capisce però perché rivolgersi oltre Atlantico, patria del molto famoso Beta Analytic (sedi anche in Australia, Brasile, Cina, Corea, Giappone, India e Inghilterra), dal momento che il metodo del radiocarbonio è praticato anche in Italia: a Firenze dal laboratorio Labec dell’Istituto di Fisica Nucleare e a Lecce dal Centro di Datazione e Diagnostica del dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione dell’Università del Salento.
E’ prevedibile che qualche polemica non mancherà neppure per i risultati delle datazioni col radiocarbonio, metodo che nel 1960 fruttò il premio Nobel per la Fisica al suo ideatore Willard Frank Libby. L’attendibilità del metodo è infatti compresa per età che vanno dai 50.000 anni fino ai 100. Anche tralasciando il margine di errore, che oscilla tra il 2 e il 5%, resta il fatto che la Orlandi è scomparsa 30 anni fa, molto meno quindi del limite minimo dei 100.
Ricordiamo che si tratta di analizzare le migliaia di ossa, conservate alla rinfusa in oltre 400 cassette metalliche, dell’ex cimitero pre napoleonico situato sotto la basilica di S. Apollinare a Roma, famosa perché vi era sepolto fino a giugno scorso Enrico “Renatino” De Pedis, il mitologico “grande capo” della banda della Magliana. Le migliaia di Dna vanno confrontati con il Dna dei familiari della Orlandi, sparita il 22 giugno 1983, e di quelli di Mirella Gregori, la ragazza romana sparita un mese e mezzo prima. E l’età delle ossa determinata negli Usa va confrontata con i 30 anni di età del mistero della scomparsa delle due ragazze.
A Roma, il procuratore della Repubblica aggiunto Giancarlo Capaldo aveva intenzione di archiviare l’inchiesta già lo scorso aprile, ma il nuovo procuratore capo Giuseppe Pignatone, arrivato a marzo, ha ribaltato drasticamente i programmi, forse proprio con l’intenzione di dare il minimo spazio alle inevitabili polemiche, ha invece non solo fatto controllare il contenuto della bara di De Pedis, ma ha addirittura scardinato l’intero ex cimitero sotterraneo della basilica, col bottino delle migliaia di ossa secolari. Bottino numericamente abbondante, ma qualitativamente nullo.
La clamorosa e spettacolare, oltre che costosa, “operazione S. Apollinare”, con apertura di tombe e rimozione di ossa, dovrebbe chiudere sette anni di acqua pestata nel mortaio delle piste fasulle lanciate dal programma televisivo “Chi l’ha visto?” a partire dal settembre 2005, quando sparò la telefonata anonima che annunciava goliardicamente la soluzione del mistero Orlandi non appena si fosse aperta la bara di De Pedis.
In vista della conclusione della ormai trentennale vicenda, da Oltretevere avrebbero fatto sapere con discrezione di non gradire una archiviazione secca, perché lascerebbe in campo solo la pista vaticana, che ha nel frattempo assunto le sembianze di orge o festini allegri a base di minorenni, ciliegina sulla torta degli scandali a ripetizione per la pedofilia di troppi uomini di Chiesa dalle Americhe all’Australia passando anche per l’Italia.
La pista delle orge dentro la basilica di S, Apollinare, con la regia del suo rettore don Piero Vergari, ovviamente amico dell’immancabile De Pedis, non è avanzata neppure di un millimetro. Insomma, un rinvio al Gup, cioè al giudice dell’udienza preliminare, dei personaggi man mano indicati come “l’autista di De Pedis”, “il killer preferito di De Pedis”, ecc., si risolverebbe in una brutta figura della Procura perché difficilmente un Gup riterrebbe praticabile una richiesta di processo basata di fatto sul nulla o poco più.
C’è inoltre un problema supplementare: il reato di sequestro di persona è ormai prescritto, si potrebbe sentenziare un rinvio a giudizio solo per il reato di omicidio, ma in mancanza del cadavere o di prove certe non c’è assolutamente nulla che dimostri che Emanuela Orlandi sia morta e per giunta uccisa. Anzi, l’avvocato Ferdinando Imposimato, legale della madre di Emanuela, sostiene che è viva: man mano sul Mar Nero, a Parigi, in Europa dell’Est, in Turchia, in Medio Oriente, ecc., ma comunque viva. E i vari Orlandi continuano a dichiarare che ne aspettano il ritorno a casa o comunque la notizia che sia viva.
L’ideale sarebbe una archiviazione che chiuda la vicenda, sì, ma lasciando qualche dubbio a carico se non del solito De Pedis almeno della “sua” banda della Magliana. Meglio se a carico di qualche defunto, vedi lo stesso “Renatino”, in modo da potersela cavare con una soluzione di questo tipo: “Se fosse vivo chiederemmo il processo, unica sede per accertare la verità, ma i defunti non si possono processare”. Anche per far partorire alla montagna il topolino di qualche dubbio a carico di qualcuno ci vogliono comunque degli indizi non risibili, o almeno non troppo gracili. Purtropo però non c’è nulla e nessuno che fornisca indizi o sospetti sufficientemente credibili.
Le clamorose accuse dell’ennesimo “supertestimone” Sabrina Minardi, entrata in pista nel 2009, che s’è vantata di essere stata “per dieci anni l’amante di De Pedis” e che ha accusato “Renatino” sia del rapimento che dell’uccisione della Orlandi, si sono rivelate bolle di sapone. Che però hanno accumulato una tale massa di contraddizioni, compresa l’impossibilità che la Minardi sia stata l’amante decennale di De Pedis, da avere costretto i magistrati che la interrogavano a porre fine al labirinto delle sue deposizioni e ad iscriverla nel registro degli indagati: concorso in sequestro di persona.
Alla sua biografa Raffaella Notariale la Minardi ha detto di avere ritrattato le accuse “per essere lasciata finalmente in pace”, ma la verità è che non ha ritrattato nulla: con le sue affermazioni strabilianti, ma sempre prive di riscontri, s’è invece guadagnata a sua volta l’accusa di complicità nel rapimento della Orlandi. Si tratta ora di capire perché, e su spinta di chi, l’ex “amante di Renatino” abbia improvvisamente deciso di uscire dalla pace tanto rimpianta e di tuffarsi a capofitto nella piscina senza acqua della sua “supertestimonianza”
Finita nel deserto dei miraggi anche la faccenda di “Mario”, lo sconosciuto che pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela telefonò a casa sua per un apparente depistaggio, ma forse più semplicemente per mitomania o goliardia, e che per giunta sarebbe il padre della persona che nel settembre 2005 ha rifilato a “Chi l’ha visto?” la telefonata con la famosa pista, tanto clamorosa quanto fasulla, diventata il tormentone De Pedis/S. Apollinare.
Contrariamente a quanto scritto da qualche incallito fantasista, non c’è nessuna “perizia collegiale” che dimostra come “Mario” sia Giuseppe “Sergione” Tommasi e il telefonista di “Chi l’ha visto?” suo figlio Carlo Alberto. C’è solo una consulenza, che di certezze non ne ha mai date anche perché i cavi telefonici, per motivi di spazio nelle trasmissione dei dati, tagliano e ancor più tagliavano 30 anni fa le frequenze più alte e quelle più basse della voce umana, lasciando così ai periti ben poco.
A un certo punto per risolvere il dilemma di chi abbia fatto quelle due telefonate la procura della Repubblica ha pensato di rivolgersi al docente John Trumper, un fenomenale gallese che analizzando le inflessioni delle voci e il loro modo di pronunciare vocali e consonanti è capace di risolvere qualunque mistero telefonico indicando con certezza dove è nata e dove è man mano vissuta qualunque persona della quale analizzi la voce. Gli inquirenti si devono essere però resi conto che non valeva la pena far fare controlli accurati su una pista ben poco credibile. Oltretutto, pare proprio che “Sergione” il giorno della telefonata a casa Orlandi fosse chiuso a chiave in galera: impossibile quindi che possa essere “Mario”.
Il caso Orlandi si avvia mestamente nel cimitero dei casi irrisolti perché irresolvibili. Irresolvibili perché “il Vaticano non collabora mai”, come sostiene un magistrato che ha avuto a che fare con reati e piste che portano Oltretevere: “Non collabora mai e si mette invece sempre di traverso”. Il caso Orlandi finisce rottamato, ma lo show si cerca in tutti i modi di tenerlo ancora in cartellone. L’ultimo fuoco d’artificio dell’Emanuela Orlandi Show, sparato da due inguaribili ammiratrici e biografe della Minardi, accusa il padre dell’ubiquo De Pedis di avere addirittura ucciso il proprio fratello e di essere stato per questo soprannominato “Caino”. Siamo ormai nel campo delle invenzioni prive di ritegno, visto anche che i magistrati lasciano fare.
Insomma, il canovaccio dell’Orlandeide tenta di passare da “Renatino” a “Caino”. Il pubblico però sbadiglia sempre di più: nel giro degli ultimi 12 mesi gli hanno “autorevolmente” rifilato ben otto diverse piste e scenari: dal “manicomio di Londra” ai “preti pedofili di Boston”, dal “principe del Lichtenstein” al convento di Sabiona nel Trentino, il bis della bufala del monastero lussenburghese di Peppange del 1993. Prima di abbandonare la sala e passare ad altri misteri, c’è ormai il rischio che il pubblico fischi sonoramente attori e registi e che magari gli lanci anche pomodori.
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