ROMA – Mistero Emanuela Orlandi, si chiude. Chiude i battenti entro la fine di questo mese di aprile l’interminabile inchiesta giudiziaria andata avanti a singhiozzo per ormai 32 anni. L’intenzione del Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone sarebbe di annunciarne i risultati con una apposita conferenza stampa. Che però è difficile ci sia davvero, per i motivi che vedremo.
Condotta negli ultimi anni dal procuratore aggiunto della Repubblica Giancarlo Capaldo e dal sostituto procuratore Simona Maisto, di recente e senza fanfare né comunicati l’inchiesta è stata avocata dal loro capo. E il loro capo Pignatone per decidere come concluderla – archiviazione o rinvio a giudizio di qualcuno – anziché avvalersi di Capaldo e Maisto ha preferito la collaborazione di un magistrato donna della Direzione Investigativa Antimafia (DIA). Particolare quest’ultimo che indica la presa in considerazione della pista mafiosa, con coinvolgimento della cosiddetta banda della Magliana, diventata una specie di prezzemolo in ogni minestra, e annesso suo presunto membro o addirittura capo Enrico De Pedis, più volte tirato in ballo a sproposito a partire dalle “rivelazioni” fasulle fatte nei primi anni ’90 dal pluriomicida Antonio Mancini.
Antonio Mancini, nel 1993, per ingraziarsi i magistrati e tentare di uscire di galera in veste di pentito, si inventò che l’organizzatore dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, avvenuta a Roma il 20 marzo 1979, era stato “De Pedis per fare un favore a Giulio Andreotti”, all’epoca potente politico democristiano più volte capo del governo e ancor più volte ministro. Non contento, Mancini ha addossato a De Pedis la responsabilità anche della scomparsa della Orlandi, inventandosi anche altre “rivelazioni” in diretta televisiva, ovviamente rivelatesi anch’esse fasulle.
D’altro canto però la Procura della Repubblica ha il forte sospetto che con la scomparsa di Emanuela Orlandi c’entri in qualche modo il fotografo romano e regista di brevi film artistici Marco Fassoni Accetti. Personaggio sui generis, scomparso di scena negli ultimi tempi, Marco Fassoni Accetti a fine marzo 2013 davanti al magistrato Capaldo si è clamorosamente accusato di essere lui l’organizzatore del “rapimento simulato” di Emanuela Orlandi e in aggiunta anche di Mirella Gregori. A dire del “reo confesso” entrambe le ragazze erano d’accordo con lo sparire per qualche tempo facendo finta di essere state rapite. E qualche giorno dopo, per l’esattezza il 3 aprile, Marco Fassoni Accetti ha anche fatto clamorosamente trovare alla redazione di “Chi l’ha visto?” quello che lui sostiene essere stato “il flauto di Emanuela”. Ricordiamo infatti che la Orlandi oltre a essere una studentessa di liceo era anche una studentessa di flauto traverso, pianoforte e canto corale presso la pontificia scuola di musica Ludovico Da Victoria.
Secondo gli inquirenti, il fotografo romano si è rivelato essere al corrente di troppi particolari veri, noti solo ai magistrati e rimasti ignoti all’opinione pubblica, per poter sostenere che s’è inventato tutto. D’altro canto però gli stessi inquirenti si rendono conto, come dice uno di loro, che Marco Fassoni Accetti ha raccontato “il minimo possibile onde evitare di prendersi dai 20 anni di galera all’ergastolo”. E benché abbia raccontato di avere agito nell’ambito di “una intelligence vaticana” nonché nell’ambito delle “lotte tra due opposte fazioni vaticane”, il sedicente reo confesso non ha mai fatto un nome di un qualche complice e neppure di qualcuno comunque al corrente di quelle “lotte tra fazioni” e dell’operato di Accetti al servizio di una di esse. D’altro canto, nessuno dei non pochi che avrebbero dovuto essere in qualche modo al corrente del suo operato, “finti rapimenti” compresi, s’è fatto avanti per confermarne i racconti. Infine, pur essendo il Vaticano imbottito di spie (anche) degli allora Paesi comunisti, negli archivi dei loro servizi segreti, diventati miniere a cielo aperto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, non esiste nessuna traccia delle “lotte tra fazioni” decantate come feroci e oltremodo ciniche da Marco Fassoni Accetti.
Tra questi due scenari, mafia/banda della Magliana da una parte e Marco Fassoni Accetti dall’altra, la Procura della Repubblica non sa ancora bene che pesci prendere. Ed è possibile che alla fine di pesci non ne prenda neppure uno. Un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio di un qualche personaggio ancora vivente sospettato di avere fatto parte del giro della banda della Magliana, come Libero Angelico detto «Ruffetto» e Gianfranco Cerboni detto «Giggetto», o di Sergiò Virtù, che secondo la “supertestimone” Sabrina Minardi, rivelatasi fin troppo inattendibile, era “l’autista di De Pedis” nonostante che questi in vita sua non abbia mai avuto autisti, non reggerebbe infatti non solo in sede processuale, ma probabilmente neppure di fronte al Giudice per l’Udienza Preliminare, detto anche GUP.
Ancor meno reggerebbe un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio di don Piero Vergari, il rettore della basilica di S. Apollinare nella quale nel 1990 venne sepolto De Pedis. Vergari è stato messo alla gogna prima perché sospettato – da alcuni giornalisti, ma NON dai magistrati – di avere reso possibile quella sepoltura come ringraziamento per avere fatto sparire sette anni prima Emanuela. Poi, crollata questa ipotesi assurda, è stato messo in croce perché indicato, tanto per cambiare sulla base di una lettera anonima, come organizzatore nella sua basilica di orge con finale a volte mortale, delle quali Emanuela sarebbe stata vittima.
Don Vergari però non è neppure stato indagato: come ci tenne a precisare con un apposito comunicato la stessa Procura, il suo avviso di garanzia è stato emesso solo come atto dovuto, puramente formale, per potere sequestrare il suo computer e controllare se contenesse notizie interessanti sulla sepoltura di De Pedis. Sepoltura rivelatasi peraltro del tutto regolare già nel corso dell’inchiesta condotta dal 1995 al 1997 dal magistrato Andrea De Gasperis. Per ingraziarsi il quale, il solito Mancini, sempre nel tetativo di passare per pentito e uscire di galera, gli aveva prospettato che l’insolita sepoltura nascondesse chissà quale segreto.
A complicare le cose riguardo la conclusione dell’inchiesta ci si è messo il Vaticano. Stufo marcio di essere tirato in ballo per una vicenda che è ormai chiaro essere uno dei purtroppo “normali” e non rari casi di cronaca nera, il Vaticano ha fatto sapere senza peli sulla lingua che non gradisce nessuna delle due ipotesi perché ognuna delle due lo tirerebbe in ballo e a vanvera.
L’ipotesi “Mafia-banda della Magliana-De Pedis” tirerebbe in ballo il Vaticano per via della sepoltura e per via degli asseriti prestiti di molti miliardi di lire della mafia e della banda della Magliana alla banca del Vaticano IOR. Prestiti dei quali molto si parla e si “testimonia”, ma sempre senza nessuna prova.
La seconda ipotesi, vale a dire la pista Fassoni Accetti, tirerebbe anch’essa in ballo in Vaticano perché il “reo confesso” ha sempre sostenuto di avere organizzato i due “finti rapimenti” in nome e per conto “di una fazione vaticana”. Tra gli inquirenti c’è chi pensa che il fotografo romano possa avere fatto sparire quanto meno la Orlandi, se non anche la Gregori, per motivi che nulla hanno a che vedere con le “fazioni vaticane” e quant’altro, ma che semmai potrebbero avere avuto a che vedere con le solite prepotenze a carattere sessuale a danno di giovanissimi, purtroppo non rare nella vita e nella cronaca nera.
Insomma, una sorta di bis di quanto sostiene la signora Maria Laura Garramon, madre del bambino Josè Garramon investito mortalmente nella pineta vicino Ostia da Marco Fassoni Accetti in circostanze rimaste non del tutto chiare il 20 dicembre dello stesso 1983 della scomparsa di Emanuela Orlandi. Poiché le circostanze non erano e non sono del tutto chiare, l’investitore è stato assolto dall’accusa di omicidio volontario non con formula piena, ma con formula dubitativa. La signora Garramon accusa invece Marco Fassoni Accetti di avere investito deliberatamente suo figlio in un contesto decisamente torbido.
Insomma, un po’ Raskolnikov di “Delitto e castigo” e un po’ egomane desideroso di luci della ribalta, Marco Fassoni Accetti potrebbe essersi auto accusato giocando col fuoco, ma in modo da non restarne scottato. E, anzi, in modo da farsi un po’ di pubblicità: magari sperando – tanto per unire l’utile al dilettevole – in una ricaduta a favore delle vendite delle sue foto sempre un po’ tenebrose e dei suoi filmini artistici, piuttosto criptici oltre che abbastanza tenebrosi anch’essi.
Stando così le cose, appare inevitabile che – a meno di strappi imposti nel rush finale – al Procuratore Pignatone non resti altro da fare che archiviare. E meglio in silenzio che suonando le trombe in conferenza stampa. Concludere cioè l’inchiesta giudiziaria sul caso di Emanuela Orlandi, e sulla sua periodica ruota di scorta Mirella Gregori, con un’archiviazione pietra tombale su un argomento fin troppo abusato con messinscene di tutti i tipi da troppi personaggi, mass media e social network compiacenti e mitomani. Fino a trasformare nel giro di 32 anni una tragedia familiare, qual è la scomparsa di una ragazzina, in un tormentone nazionalpopolare degradato infine in feuilleton dalle infinite puntate e in pochade tanto ripetitiva e maniacale da girare sempre a vuoto. E risultare quindi noiosa.
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