Emanuela Orlandi. Marco Fassoni Accetti, morte di José Garramon: sentenza, ombre

Che i racconti di Marco Fassoni Accetti sul suo investimento mortale del tredicenne Josè Garramon, avvenuto la sera del 20 dicembre 1983 nella pineta di Ostia, mostrassero “la corda della menzogna o quantomeno della incongruenza e della contraddizione”, è scritto chiaro e tondo nella sentenza: quella con la quale il fotografo romano, processato per omicidio volontario e pedofilia, è stato condannato “solo” per omissione di soccorso e omicidio colposo.

Emanuela Orlandi. Marco Fassoni Accetti, morte di José Garramon: sentenza, ombre
L’incrocio con via Cristoforo Colombo visto dal piazzale del Cinghiale sito tra la pineta di Ostia e quella di Castelfusano. Come si vede chiaramente, la distanza è minima, non più di 20-30 metri.

Ma la “corda della menzogna” e affini comprende nodi per nulla irrilevanti sfuggiti ai giudici. E che hanno permesso di tessere altra “corda” dello stesso tipo nelle clamorose rivelazioni dell’anno scorso. Tant’è che forse la madre di Garramon, Maria Laura, basandosi sugli elementi che ho raccolto e che ora espongo potrebbe chiedere la riapertura dell’inchiesta anche se la sentenza è ormai definitiva. Ma andiamo per ordine.

Il 27 marzo dell’anno scorso Accetti è andato alla Procura della Repubblica di Roma per auto accusarsi dell’organizazzione di quello che a suo dire era il finto rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Programmato per una non lunga durata e finto
perché le due ragazze sarebbero state d’accordo a sparire per un periodo senza neppure avvertire i propri familiari. Versione difficile a digerire. Così come sono difficili a digerire le mirabolanti “rivelazioni” a corredo della ben strana faccenda, che Accetti colloca nel contesto della “lotta fra due avverse fazioni del Vaticano”.

Si direbbe però che ai giudici del processo e della condanna per l’uccisione di Josè sia sfuggito il particolare più significativo della citata “corda della menzogna o quantomeno della incongruenza e della contraddizione”. Accetti infatti ha raccontato che quella sera nell’andare da Roma a Ostia con un furgone Ford Transit per fotografare una sua amica (che ha però negato di saperne nulla) ha sbagliato strada: arrivato a un certo punto di via Cristoforo Colombo, anziché girare a destra ha girato a sinistra su via del Lido di Castelporziano e poi di nuovo a destra imboccando il viale di Castelporziano. Tralasciamo che, come hanno rilevato i giudici nella sentenza, per imboccare quest’ultima strada Accetti ha voluto bellamente ignorare il divieto di ingresso per i mezzi privati. Soffermiamoci invece sul fatto che ha anche raccontato di essere tornato indietro quando, arrivato dopo un chilometro e mezzo circa al piazzale del Cinghiale, nel cuore della grande pineta di Ostia, si è finalmente accorto di avere sbagliato strada. Nel tornare indietro “per rimettermi sulla Colombo” Accetti ha investito e ucciso Josè, proseguendo però la corsa perché a suo dire non s’era accorto di avere investito una persona.

E’ però impossibile credere che Accetti a piazzale del Cinghiale non si sia accorto che via Colombo era, letteralmente, davanti al suo naso. E’ impossibile che non se ne sia accorto nell’arrivare nel piazzale ed è ancor più impossibile che non se ne sia accorto nel fare la manovra di inversione a U. Come dimostra la foto a corredo di questo articolo, foto che ho scattato proprio dal piazzale del Cinghiale, la Colombo è ad appena 20-30 metri di strada, a quell’epoca asfaltata, da dove Accetti ha fatto l’inversione. Tanto più che l’incrocio è debitamente segnalato sia da un semaforo che dalle luci dei molti automezzi in transito senza soluzione di continuità. A quell’ora infatti, le 19:40 circa dell’ultimo giorno d’autunno, il traffico è ancora molto intenso, come riconosce anche la sentenza, e dal piazzale del Cinghiale le sue luci non possono sfuggire neppure a un cieco. Non ha quindi nessun senso dire di essere tornato indietro, percorrendo quasi due chilometri per immettersi di nuovo sulla Colombo, anziché raggiungerla immediatamente dal luogo dell’inversione a U: vale a dire, da quella manciata di metri dal piazzale del Cinghiale.
Quei 20-30 metri non sono che lo sbocco sulla Colombo della via della Villa di Plinio, strada quest’ultima vietata al traffico dei mezzi a motore e che si addentra nella pineta offrendo la possibilità di una bella passeggiatona a piedi. Quei pochi metri, percorribili invece in auto, servivano per esempio alla signora Bruna Capitani per andare e venire da casa sua, una villetta sita al civico 54 della via e affacciata su un’estremità del piazzale del Cinghiale. E serviva alla Guardia Forestale per andare e venire dal proprio magazzino adiacente a casa Capitani. Magazzino diventato in seguito l’attuale sede della Forestale a guardia della pineta di Ostia e di quella contigua di Castel Fusano.
Unico dubbio: quei 20-30 metri, forse decisivi in sede processuale, esistevano già nell’83 o sono stati aperti dopo? Dubbio immediatamente dissolto dalla stessa signora Bruna Capitani:

“Sono andata ad abitare in quella villetta nel 1958. E quel tratto di strada che univa casa mia alla Colombo esisteva già”.

Se i giudici fossero stati messi al corrente di questo particolare, la sentenza forse sarebbe stata diversa. Anche perché avrebbero ancor più notato la stranezza – peraltro rilevata in sentenza – rappresentata dal fatto che l’investitore, una volta tornato, a suo dire, sulla Colombo a un certo punto abbia girato a destra e percorso ben tre chilometri per andare a parcheggiare il furgone in uno spiazzo nascosto dalla vegetazione vicino al numero civico 50 in via Dobbiaco. Per poi tornare a riprendeselo di lì a poche ore accompagnato dalla sua amica Patrizia D. B. Per trovare uno spiazzo dove parcheggiare l’automezzo non c’era affatto bisogno di percorrere tre chilometri, bastavano poche centinaia di metri e anche meno. La distanza di tre chilometri ha insospettito i giudici inducendoli a credere che quella di Accetti somigliasse piuttosto a una fuga per nascondere il Ford Transit anziché a una semplice ricerca di dove parcheggiarlo.

La mala “corda” di cui parla la sentenza è stata allungata l’anno scorso con un’altra – diciamo così – imprecisione o contraddizione, per non dire altro. Accetti nei suoi mirabolanti racconti – iniziati a fine dello scorso marzo e proseguiti in modo fluviale su giornali, televisioni, Internet, Facebook e sul proprio blog, ha sempre sostenuto che quella disgraziata sera in cui ha investito e ucciso Josè stava compiendo “un’operazione” ai danni del magistrato Severino Santiapichi. Un giudice all’epoca impegnato in processi importanti, come per esempio quello sul sequestro e uccisione dell’onorevole Aldo Moro con annesso massacro della sua scorta.

Dalla testimonianza non solo della sua amica Patrizia D. B., che dopo mezzanotte lo accompagnò a recuperare il furgone, è assodato che Accetti all’epoca non aveva la più pallida idea di chi fosse Santiapichi. Il “rapitore” di Emanuela e Mirella ha invece affermato in lungo e in largo che quella sera lui era nella pineta di Ostia “perché vi si trovava la villa del magistrato Santiapichi”, contro il quale doveva compiere la misteriosa “operazione”.
Con questa affermazione Accetti si è però dato la zappa sui piedi anche se, molto stranamente, nessuno finora se n’è accorto. Bastano infatti un sopralluogo nella zona e una telefonata a Santiapichi, tornatosene in pensione nella sua amata Sicilia, per appurare che lui nella pineta di Ostia NON ci ha mai abitato.

Tra il luogo dove abitavo io e via del Lido di Castelporziano ci sono più o meno due chilometri di strada nella direzione verso Roma”,

spiega gentilmente Santiapichi. Il che significa una cosa ben precisa: lui abitava nella località detto Infernetto, che è sì vicina alla pineta di Ostia, ma NON ci ha nulla a che spartire. E’ come dire che l’Infernetto è sul mare oppure che è un rione di Ostia, quando invece il mare non lo vede neppure col binocolo e con il comune di Ostia non ha nulla a che vedere. “E’ evidente che Accetti sull’abitazione di Santiapichi riferisce quanto ha orecchiato quando lui e Patrizia D. B. sono stati interrogati dai carabinieri e da un magistrato poche ore dopo essere tornato alla ricerca del furgone”.

Insomma, a conti fatti si direbbe che Accetti deve la sua assoluzione dai reati più gravi, omicidio volontario e pedofilia, alla bravura dei suoi avvocati. In Sicilia, infatti, ma anche altrove, c’è gente che è stata condannata senza derubricazione delle accuse con prove e indizi più tenui di quelli a carico di Accetti per il suo processo. L’assoluzione è dovuta anche alla testimonianza del suo amico fotografo Gherardo Gherardi, che ha giurato in aula di avere visto nel proprio studio, vicino a casa Accetti nel quartiere Trieste, il suo amico e collega poco prima delle 18:30. Impossibile quindi che Accetti abbia avuto il tempo di attraversare Roma da un capo all’altro per passare a prendere Josè all’Eur, dove il bambino abitava, ed essere in Viale di Castelporziano una decina di minuti prima dell’investimento, avvenuto intorno alle 19:40. Infatti, il tragitto da casa Accetti a viale di Castelporiziano non può essere stato compiuto in meno di un’ora, stando alle prove fatte fare dai magistrati. E comunque nulla dimostrava che Accetti e Josè si conoscessero già.
Gli stessi magistrati però fanno rilevare nella sentenza che sull’attendibilità di Gherardi “una riserva non può non essere formulata”. Se non altro perché l’imputato lo ha tirato in ballo solo quando il portiere di casa sua ha negato di averlo notato mentre usciva di casa, e non poteva quindi confermare che fosse uscito solo poco prima delle 18:30.
C’è un’altro particolare che ai giudici è pure sfuggito. Accetti e Gherardi hanno raccontato che al primo servivano dei contenitori per metterci il materiale fotografico da portare a Ostia per l’asserito – ma negato dall’interessata – servizio fotografico all’amica che ci viveva, e che non avendo il secondo quanto adatto alla bisogna s’è dovuto ripiegare su una cesta.

Qui si impongono due domande:
1) – come è possibile che un fotografo come Accetti, che testimoni hanno descritto come già preparato e stimato ben prima prima di quel tragico 20 dicembre, e che di servizi fotografici come quello asseritamente da fare a Ostia ne aveva già buona esperienza, non avesse dei banali contenitori per trasportare il suo materiale fotografico?
2) – Come aveva fatto a trasportarlo le altre volte per gli altri servizi fotografici?

Inoltre, ai giudici nessuno ha fatto presente che piazzale del Cinghiale affacciava direttamente su via Colombo, e che era impossibile che l’imputato i famosi contenitori non li possedesse di suo.
Chissà se di tutto ciò Accetti parlerà nel caso vada in porto il suo progetto di film, per il quale ha già proposto la parte di Emanuela Orlandi a una ragazza, progetto al quale collabora l’unico giornalista che gli crede e gli dà sempre molta voce Fabrizio Peronaci. Il quale già da anni parla di un film proponendo a ex detenuti della “banda della Magliana” di “dire quello che sanno su Enrico De Pedis e la scomparsa di Emanuela Orlandi”. Proposta francamente fuori luogo visto che De Pedis con la scomparsa della ragazza c’entra meno dei classici cavoli a merenda

I commenti sono chiusi.

Gestione cookie