Emanuela Orlandi, un ritorno di fiamma ha riportato sui giornali di questi giorni un memoriale di Marco Fassoni Accetti che Blitz pubblicò integralmente 8 anni fa, esattamente il 16 Giugno 2014.
Si tratta di piccole parti di un lungo memoriale, incompatibile con lo spazio di un giornale e anche con le disponibilità di Google – demolito dai magistrati e da me con una lunga serie di articoli – che ho già pubblicato su Blitz. Sono notizie note da anni, ma ignote a giovani cronisti.
Motivo per cui riteniamo opportuno pubblicare nuovamente il memoriale del 2014 di Marco Accetti, in arte Marco Fassoni Accetti.
Lo faccio dividendo il testo in varie puntate, per rendere più agevole la lettura di chi ancora si appassiona a questa vicenda. In fondo a ciascuna pagina, i link alle altre pagine per facilitare ricerca e collegamenti.
Otto anni fa ho ricevuto per posta, con busta recante sui francobolli il timbro postale di Roma, il memoriale di Marco Fassoni Accetti, il fotografo e regista indipendente meglio noto con il nome d’arte ricavato con l’aggiunta del cognome materno Fassoni.
– tutta la narrazione è un lungo collage di cose note, scritte su articoli e libri, e di affermazioni impossibili da verificare, come per esempio le scene descritte dell’organizzazione del finto rapimento delle due ragazze e della presenza tra gli organizzatori di defunti come Enrico De Pedis. Accetti è arrivato a copiare da un mio libro del 2010 un particolare della famosa “borsa di prodotti di bellezza Avon” che smentisce quanto affermato da chi dice di avere visto Emanuela nel pomeriggio del giorno della scomparsa mentre passava a piedi davanti a Palazzo Madama diretta alla scuola di musica Ludovico da Victoria in piazza S. Apollinare;
– questa sfilza di infiniti particolari disseminati su articoli di giornali e libri può essere stata messa assieme con pazienza certosina dalla lunga frequentazione da parte di Accetti della postazione Internet della biblioteca di Villa Leopardi, a pochi metri da dove abita. Frequentazione della quale ho già parlato su Blitz con un apposito articolo, la mania dei “codici”, ben 31, messi assieme nei modi più impensabili per far capire “a chi di dovere” che le ragazze erano state rapite e per depistarli, è tale da averne messi assieme talmente tanti da indurre a pensare che i “chi di dovere” fossero degli emerito cretini o duri di comprendonio;
– Accetti chiamandolo Servizio D’Informazioni della Sicurezza Militare o sbaglia clamorosamente il vecchio nome del nostro servizio segreto militare, il cui acronimo SISMI sta per IServizio Informazioni e Sicurezza Militare, oppure parla a vanvera;
Dai rapidi accertamenti che ho condotto, il memoriale risulta vero. Contiene cioè tutto ciò che Accetti ha raccontato ai magistrati in vari interrogatori. I titolini in grassetto corsivo sono messi da Blitz. La nota tra parentesi quadra è mia.
Cominciamo dal vedere come si presenta Accetti per rendere credibile il suo racconto:
Negli anni ’60 frequentai le elementari presso il collegio Sant’Eugenio sulla via Cassia. Nel 1967 feci le scuole medie nel collegio San Giuseppe Istituto De Merode presso piazza di Spagna. Il direttore spirituale e mio confessore era Don Pierluigi Celata, che proprio in quegli anni entrava a far parte del servizio diplomatico dello Stato Città del Vaticano. Attraverso di lui conobbi un ecclesiastico, anch’egli diplomatico. Terminato il collegio cercai quest’ultimo nel 1970 in quanto io, come autore dei miei primi corto e mediometraggi in pellicola 8 e super 8 mm., quali la prima opera, il “Beatrice Cenci”, necessitavo di abiti talari, oggettistica liturgica e la possibilità di filmare in ambienti scenograficamente ecclesiali. Attraverso questo sacerdote ebbi , tra il ’71 e ’72 la possibilità di conoscere altri ecclesiastici, generalmente di origine lituana e francese. Ed è per questa comunanza che nel ’72 mi recai ad una manifestazione per la libertà religiosa in Lituania, davanti al Liceo Torquato Tasso di Roma. Ma questa era organizzata dal Fronte della Gioventù, realtà politica a me sconosciuta per i tanti anni in collegio e conseguente separazione dalla società civile. Gli attivisti incendiarono e distrussero quanto trovarono innanzi. Arrivò il reparto Celere della p.s. , tutti fuggirono ed io rimasi basito e perplesso con i volantini in mano. Fui arrestato e processato. I miei amici sacerdoti stigmatizzarono l’essermi accomunato ad una realtà di destra, ma riconobbero il mio idealismo, la partecipazione, il mio “offrirmi”. Ecco, credo che tutto quel che seguirà, pricipi da qui, da questi apprezzamenti a me rivolti.
Cominciai a frequentare i cineclubs, le proiezioni d’essai, ed è in questi millieu , che scoprii il mio essere naturale “di sinistra”, che ben si coniugava con le mie radici di educazione sinceramente cristiana. Questi sacerdoti appartenevano all’area di monsignor . Bakis, lituano vissuto in Francia, che entrò intorno al ’73 – ’74 nel Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Approssimativamente, verso il ’76 – ’77, uno dei suddetti sacerdoti diplomatici, sapendo della mia ininterrotta attività cinefotografica mi chiese se, in virtù di queste mie capacità, e vista la conoscenza e fiducia che riponeva in me, potessi aiutarlo a cine – foto riprendere alcuni esponenti del clero che avevano il “vezzo” di riferire notizie delle attività del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa a non meglio identificate persone riferibili a certi circoli d’interesse “occidentale”. Mi si fornì un’attrezzatura maggiormente sofisticata e nei mesi a venire mi trovai a fotografare un qualcuno che usciva da un portone e si poteva incontrare con un qualcun altro, ed altre situazioni simili, operando anche attraverso l’interno camuffato d’un autovettura. (…) Spesso ci trovavamo ad operare nei pressi del Club di Roma. Attenzionavamo i colloqui che intercorrevano tra il Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, monsignor Silvestrini, ed i capi delegazione stranieri, che avvenivano il giovedì ed il sabto pomeriggio. Facevo capo solo alla sopraddetta persona e non ero contraccambiato se non con l’ottenere l’uso di attrezzatura cinematografica per le mie creatività: cineprese 16mm. con pellicola ed altro.
Vediamo ora come Accetti descrive, anno per anno a partire dal 1978, l’asserita e mai provata attività della “fazione vaticana”, la cui esistenza non è stata mai provata e alla quale Accetti afferma di avere fatto riferimento. Accetti descrive anche le asserite sue azioni all’interno della “fazione”:
Nel 1978, con l’avvento del nuovo Pontefice Giovanni Paolo II, i nostri intenti erano di smascherare e neutralizzare le realtà diplomatiche e politiche della Città Stato del Vaticano che volessero danneggiare la cultura dialogica diplomatica con le nazioni del Patto di Varsavia, ed estensivamente ogni operazione di propaganda a nocumento delle suddette nazioni.
1979
Con la morte del Card. Villot e il nuovo governo della Chiesa, monsignor Bakis venne nominato sottosegretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Nella sua autovettura, una Fiat, posizionammo una microspia funzionante quando questi recava con se una personalità da monitorare. Diplomatici della sua area svolgevano funzioni tra gli Officiali Maggiori di 2° classe. Sono Consiglieri di Nunziatura, Uditori di Nunziatura e segretari. Ed è in questa realtà che si viene a creare un interesse comune di intenti diciamo “progressisti”. Si forma una sorta di ganglio interno che cerca di ispirare le scelte della Segreteria diretta da monsignor Silvestrini. Questo nucleo si avvale di pochi elementi, generalmente lituani e francesi, posti anche in altre entità curiali quali persone vicine a monsignor Martin della Prefettura della Casa Pontificia ed altre vicine a monsignor Deskur nella Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali. Si avvantaggia dell’ausilio di alcuni laici nella Giunta guidata dal Marchese Sacchetti nel Governatorato. Inoltre due elementi nella Congregazione De Propaganda Fide, altri vicini al Card. Vagnozzi nella Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e nell’ex- gendarmeria. Una realtà diplomatica che ha buone relazioni con gli ambienti della stampa interna, nelle amministrazioni Palatine.
Chiesi ausilio per la mia “attività” ad un altro ex-compagno del Collegio San Giuseppe Istituto De Merode. Di costui potevamo avvantaggiarci in quanto aveva un parente in buoni rapporti con la diplomazia della Gran Bretagna e della Jugoslavia. Quest’ultima nazione, in quel momento storico, era l’unica tra le nazioni “oltrecortina” a mantenere rapporti diplomatici con lo Stato Città del Vaticano. Inoltre aveva una stretta amicizia con monsignor Silvestrini, Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.
Nella primavera del ’79 il Pontefice, contravvenendo alla disposizione del suo predecessore Papa Montini, che per motivi di opportunità aveva stabilito che nella Costituzione dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, la stessa dovesse essere sempre posta sotto l’egida ed il controllo della Segreteria di Stato, decise contrariamente di affidare detta amministrazione alle cure del Card. Caprio. Noi interpretammo questo gesto come un sottrarre competenze alla Segreteria di Stato, nella considerazione inoltre che il Card. Caprio, già Internunzio in Cina ed espulso dalla stessa per il suo accanimento anticomunista, avrebbe condotto una politica economica contraria alla nostra parte. Inoltre questa personalità era Consultore della Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico. Lo “attenzionammo” anche con la presenza di microspie messe nel suo studio, sotto un bordo di moquette color giallo. In seguito ad operazioni di pressione il Pontefice decise di revocare la Sua stessa decisione, riconducendo l’Apsa sotto il controllo della Segreteria di Stato e promuovendo il Card. Caprio a presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, la cui presidenza era vacante essendo deceduto, verso la fine del 1980, il Card. Vagnozzi.
Verso l’inizio dell’estate 1979 controllavo le uscite del Collegio Pangermanico su via Santa Maria dell’Anima, mentre il signor Alì Giama controllava le altre uscite dello stesso collegio sulla piazza della Pace. Era questi un ingegnere somalo da me avvicinato mesi prima al Russicum, frequentato da ambedue. Mi raccontò di un suo viaggio in Unione Sovietica. Aveva alcuni interessi che non rammento nel quartiere dello stesso Russicum. Gli chiesi di collaborare, senza metterlo al corrente più di tanto. Una certa sera di quell’estate ero presso la mia abitazione quando mi chiamarono dicendomi che il Giama era perito in un incendio. Avevo appuntamento con lui nel pomeriggio dell’indomani. Mi recai immediatamente sul posto e lo vidi sotto un telo nel colonnato del Tempietto della Pace, verso la mezzanotte ca. Notai che gli addetti al trasporto funebre, rimuovendolo lasciarono cadere in terra alcune parti dei grossi brandelli della giacca del Giama. Pensai che all’interno potessero trovarsi degli appunti riferibili alla nostra attività comune. Sono tornato verso l’alba e ho recuperato le stoffe ripromettendomi di ispezionarle presso altra sede. Giorni dopo mi contattò il commissario Paul Nash, il quale mi chiese di seguirlo presso la Questura Centrale, dove mi mostrò alcune fotografie, scattatemi dall’alto del Collegio Pangermanico, mentre prelevavo le stoffe. Mentii raccontando che tale materiale mi serviva da esporre in Piazza Navona in una manifestazione per celebrare la memoria di Alì Giama, le cui cause di morte non credo siano da ricondurre all’attività già accennata. Seppi in seguito che quelle foto mi furono scattate da un sacerdote della Germania occidentale, da una delle finestre del Collegio Pangermanico.
Sospettai, ma senza alcuna prova, che dietro quelle fotografie ci potesse essere l’interessamento del BundesNachrichten Dienst, il servizio d’informazioni della Germania Federale. Comunque subodorai la possibilità di essere negli interessi investigativi dell’allora dirigente del 1° distretto, dottor Pompò, per cui cercai di dissimulare ulteriormente creando alcune coperture che giustificassero la mia presenza in quell’area attraverso l’uso prezzolato di Mario Appignani. Costui era un personaggio esemplare per operare certe coperture come in futuro l’adottare da parte mia il travestimento da Roberto Benigni. Architettai di voler organizzare in piazza delle manifestazioni in omaggio di Alì Giama e di denuncia delle sue condizioni di emarginazione. In seguito, con la complicità di Mario Appignani creai del trambusto in piazza Navona, il cui risultato esulò dalle mie aspettative, con alcune conseguenze legali, laddove Mario Appignani, io ed alcuni miei compagni fummo fermati dagli agenti del primo distretto di Pubblica Sicurezza, innanzi al portone del Senato.
La mia parte era a conoscenza che all’interno di quel flusso in progresso che avrebbe portato alla costituzione definitiva del sindacato Solidarnosc, vi era un piccolo nucleo che si stava organizzando nella Germania Federale, il cui intento era organizzare una reazione di insurrezione popolare nel caso si fosse verificata un’invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Il sospetto e il pericolo era che questo nucleo potesse o volesse compiere delle provocazioni tali da favorire la suddetta invasione ed ottenere il consenso internazionale e la stigmatizzazione estensivamente degli stati a carattere comunista. Il nostro problema era che avevamo notizia che alcuni finanziamenti verso questa suddetta entità già cominciavano a fluire da alcuni attori dello Stato Italiano e dallo Stato Città del Vaticano. Per contrastare questa realtà la mia parte operò delle pressioni affinché la visita del Pontefice in Polonia potesse essere rimandata sine die.
Tra alcune attività vi fu quella di lasciare nel territorio della nazione francese (nazione scelta in quanto per tradizione si occupava della sicurezza al Pontefice) alcune “voci” che riferivano di un possibile attentato al Pontefice da parte del KGB durante il soggiorno del Pontefice in terra polacca. Controllammo l’iter di consegna dell’informativa presso la Città Stato del Vaticano e facemmo in modo che ad essere prescelto come terminale della stessa fosse l’abate dei Premonstratensi Calmels, che era persona molto vicina a monsignor Backis, sottosegretario al Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, di cui la mia parte faceva riferimento diplomatico – politico, senza che egli ne fosse stato mai coinvolto. L’operazione comunque fallì e il viaggio fu realizzato. Fu operato un gesto a mo’ di codice e monito attraverso l’adoperare certi esponenti della mala vita nel far loro compiere un furto, presso un Istituto religioso, di quadri appartenenti a monsignor Ausiello, che credo fosse in carica presso la Segreteria di Stato.
In novembre si tenne l’annuale riunione plenaria del Sacro Collegio dei Cardinali. Fu favorita la soluzione dei debiti della diocesi del Card. Hume in Inghilterra, altra notevole figura di riferimento della nostra parte. Una nuova contingenza nacque dal fatto che il pontificato di Montini aveva lasciato un notevole deficit finanziario nella Città del Vaticano, per cui la suddetta riunione affrontò l’emergenza con un intervento da noi molto temuto del Card. Caprio. Per la sua area politica procurare nuovi fondi significava ottenerli demagogicamente attraverso una strategia di consenso popolare internazionale presso le varie diocesi basata sull’esasperazione dell’anticomunismo. Ed è in questa realtà che la Staatssicherheit , allarmata da quanto esposto, ci chiese di indagare. Tengo a precisare che i rapporti con la Staatssicherheit erano sempre e solo per boicottare qualunque possibile sfruttamento da parte di terzi nei confronti di ogni realtà ecclesiastica a fini di manipolazione e contraffazione. La Staatssicherheit era rappresentata da una sola persona laica, introdottaci da un diplomatico e da un religioso delle Amministrazioni Palatine.
Tra il ’79 e l’80 monsignor Deskur fece un viaggio nella Germania Federale, dove la Staatssicherheit riuscì a monitorarlo a sua insaputa riguardo la suddetta riunione plenaria di Novembre.
In quest’anno vi era la necessità assoluta di far cessare l’influenza del dottor Thomas Macioce e del Card. O’Connor nei confronti dell’Istituto Opere di Religione. Consideravamo monsignor Marcinkus un semplice esecutore della volontà delle suddette personalità. Ma la sua defenestrazione avrebbe comportato comunque il cessare di quella politica economica ed anche dei finanziamenti alla cellula radicale polacca in territorio della Germania occidentale. Pensammo di coinvolgerlo in un fatto di false testimonianze in cui due signore di diversi ambienti, e non conoscenti tra loro, potessero accusarlo di fatti di molestia sessuale o altro. Considerammo alcune appartenenti al Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta, quali Dame d’Onore e Devozione, di Grazia e Devozione. La scelta dell’Ordine dei Cavalieri di Malta fu operata in quanto, in questa associazione vi erano iscritte persone appartenenti agli interessi a noi contrapposti, tali l’Avv. Umberto Ortolani , il dottor Thomas Macioce e il dottor Santovito, preposto al Servizio D’Informazioni della Sicurezza Militare.
Tra molte altre signore prese in considerazione ci si indirizzò verso la baronessa Rothschild, in quanto la famiglia Rothschild era spesso consultata in ordine finanziario dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Inoltre la Baronessa era vicina a persone di nostro riferimento, tale il Delegato Apostolico Bruno Heim in Londra. Costui favorì la nomina del Card. Hume, un’autorità appartenente alla nostra parte culturale, presso la diocesi di Westminster nel 1976. Il delegato Heim e la baronessa frequentavano gli stessi ambienti di studio di araldica. Queste altolocate signore avrebbero dovuto riferire che nel corso della loro “liason” con il monsignor Marcinkus, costui aveva lasciato trapelare alcune informazioni particolarmente riservate riguardanti la materia dell’ Istituto Opere di Religione. Per questa operazione ci ispirammo ad una precedente strategia di alcuni giornalisti del “Rudè Pravo” che collaboravano con l’allora servizio d’informazioni cecoslovacco, che irretirono un diplomatico italiano attraverso “l’uso” di una signora per carpirgli informazioni riguardo l’attività della delegazione italiana. Costui fu poi considerato a sua volta un fiancheggiatore con il nomignolo di “Artur”.