ROMA – Per dimostrare che Emanuela Orlandi è l’attuale moglie di suo fratello Pietro, la fotografa romana Roberta Hidalgo e due suoi amici gli hanno piazzato in casa una microspia. Questa è la rivelazione fatta dalla stessa Hidalgo nel suo libro “L’affaire Emanuela Orlandi”, pubblicato in questi giorni. Il libro in realtà ne contiene un’altra di rivelazione, della quale però la Hidalgo non sembra rendersi conto: mettendo assieme le analisi del criminologo Francesco Bruno a supporto della tesi di Emanuela moglie di suo fratello Pietro e alcune affermazioni dello stesso Bruno di dieci anni fa, si riesce infatti a capire come sia nata la pista della Banda della Magliana e di Enrico De Pedis autori del “rapimento” di Emanuela.
La tesi principale del libro, di 176 pagine è quella che Emanuela Orlandi, scomparsa nel 1983 e della quale da allora non si è più saputo nulla, non solo è viva, ma si fa chiamare Patrizia Marinucci, abita al numero 15 di via della Traspontina ed è la moglie di Pietro Orlandi.
In realtà la notizia non è una vera notizia perché già venne fuori anni fa e io stesso me ne occupai, smontandola, nel mio libro del 2008 “Emanuela Orlandi – La verità”. Nel libro accennai anche alla faccenda della microspia, anche se indirettamente per evitare guai alla stessa Hidalgo.
Roberta Hidalgo è la fotografa romana che a suo tempo fece il clamoroso scoop delle foto di papa Wojtyla in costume da bagno sul bordo della piscina vaticana.
La tesi del libro della Hidalgo appare sostenuta da “prove scientifiche”, che consistono in comparazioni fotografiche, grafologiche e analisi del DNA. Per poter fare questa analisi, Hidalgo ha raccattato dalle immondizie i tamponi mestruali della signora Marinucci e fingendo di cadere ha strappato qualche capello alla signora Maria Pezzano, madre di Emanuela. Il tutto è stato avvalorato da un rapporto firmato anche dal famoso criminologo Francesco Bruno.
Bruno in passato è stato autore di un ritratto psicologico culturale di colui che per qualche tempo si spacciò per il telefonista, detto “l’Americano”, dei “rapitori” della Orlandi.
Il ritratto stilato da Bruno è da molto tempo agli atti dell’inchiesta giudiziaria ed è ben noto in particolare ai magistrati Giovanni Malerba e Adele Rando, che negli anni ’90 si sono occupati del caso Orlandi concludendo già nel dicembre 1997 che il “rapimento” era solo una messinscena per coprire ben altro. Cosa fosse questo “ben altro” non poterono capirlo per colpa del muro di silenzio e omertà opposto dal Vaticano, che ha rifiutato di far interrogare come testimoni alcuni cardinali della curia e ha ordinato di mentire agli inquirenti ad almeno un teste.
Il teste in questione è Raul Bonarelli, all’epoca vice capo delle Vigilanza vaticana. Per non avere saputo spiegare ai magistrati perché mai monsignor Bertani, “cappellano di Sua Santità”, gli avesse dato quell’ordine, Bonarelli il 13 ottobre 1993 venne avvisato di un reato non lieve: concorso in sequestro di persona, dove la persona sequestrata era la Orlandi. Successivamente ha avuto la cittadinanza vaticana mentre la Vigilanza è stata elevata al più alto rango di Servizi di Sicurezza e Protezione Civile, dove tuttora è bene inserito. Il 2 giugno del ’95, nonostante fosse ancora formalmente indiziato di reato, è stato nominato Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e il 27 dicembre 2007 anche Grand’Ufficiale sempre della Repubblica Italiana.
Il primo a lanciare pubblicamente per il caso Orlandi la pista della banda della Magliana è stato proprio Francesco Bruno e lo ha fatto due anni e mezzo prima che nel settembre 2005 arrivasse la famosa telefonata anonima al programma televisivo “Chi l’ha visto?”. Il lancio è avvenuto nel febbraio 2003 con la sua prefazione al libro “Vaticano – Un affare di Stato” di Ferdinando Imposimato.
Nella prefazione Bruno scrive: “Emanuela Orlandi potrebbe essere stata rapita con l’ausilio della banda della Magliana“. E se in questa frase usa il condizionale, nelle parole immediatamente successive usa invece l’indicativo, segno che non ha dubbi: “La ragazza in seguito è stata uccisa e sono stati uccisi anche i suoi killer”. Su cosa si basassero le tre affermazioni Bruno non ha mai voluto dirlo. Lo diciamo noi adesso: si basavano solo ed esclusivamente sulla lunga lettera arrivata per posta all’Ansa di Milano il 17 ottobre 1983, scritta da una persona che diceva di far parte dell’organizzazione “anticristiana Turkesh” e affermava in particolare due cose: che Emanuela era stata uccisa da un certo Aliz e che “il giocatore della Lazio Spinozzi” [Arcadio di nome], sapeva molto della vicenda in quanto “era amico di Aliz e lo era stato della Orlandi”.
La lettera arrivata all’Ansa era uno dei tanti falsi per intralciare il Vaticano e papa Wojtyla creati dal colonnello Gunter Bohnsack nel X Dipartimento della Stasi, come si chiamavano all’epoca i servizi segreti di Berlino Est. Gli inquirenti non la presero neppure in considerazione. E il dirigente della Squadra Mobile Nicola Cavaliere, oggi capo dei servizi segreti civili AISI, spiegò molto chiaramente il perché: “Se la questura dovesse stare dietro a tutte le fandonie perderebbe solo tempo”.
Nel 1995-’97 i giornali L’Unità e Il Messaggero sollevarono il caso della tomba di Enrico De Pedis nella basilica di S. Apollinare. Si venne così a sapere che una “escort” d’alto bordo sua amica intima, Sabrina Minardi, era stata la moglie di un giocatore della Lazio, Giordano Bruno. Fu così che il 26 giugno ’98 il giornalista Max Parisi scrisse sul giornale La Padania un articolo che per la prima volta legava esplicitamente il “rapimento” Orlandi alla banda della Magliana e a Enrico De Pedis. Elementi questi che la Squadra Mobile di Nicola Cavaliere aveva invece ritenuto di poter cestinare ma che La Padania riprese in blocco dopo 15 anni di indagini: cosa c’era di meglio per dimostrare che “Roma ladrona” è anche criminalona? L’articolo della Padania passa inosservato, ma fa gongolare Umberto Bossi perché la Lega contro la tomba di De Pedis in S. Apollinare aveva reclamato e presentato un’apposita interrogazione parlamentare. A rimettere in pista gli accostamenti recuperati da La Padania sarà cinque anni dopo Bruno, che comincia a elencarli nella sua prefazione del 2003 per il libro di Imposimato.
Passano sei anni e e nel 2009 lo stesso Nicola Cavaliere afferma nell’introduzione a un libro della giornalista Rita di Giovacchino, che “l’ombra della banda della Magliana” era comparsa fin dalle prime battute del mistero Orlandi. Una affermazione che però non trova riscontro negli atti giudiziari, tant’è che ha sorpreso per primi gli stessi magistrati alle cui indagini proprio Cavaliere aveva lavorato per anni. “La banda della Magliana? Nelle mie indagini?”, sgrana gli occhi ancora oggi Adele Rando.
Che talvolta le parole del criminologo Bruno facciano clamore lo dimostra anche quanto dichiarò dopo il ritrovamento, il 14 maggio 2001, di un teschio umano nella chiesa di Gregorio VII, nei pressi del Vaticano. Il giorno prima, 13 maggio, ricorreva il 20esimo anniversario dell’attentato di Alì Agca a papa Wojtyla e Bruno dichiarò: “Il teschio è stato scelto con attenzione, perché o si tratta di quello di Emanuela Orlandi oppure deve ricordarlo”.
Viene allora da sospettare che l’idea di lanciare la pista Banda della Magliana/De Pedis abbia più o meno la stessa origine della prima pista fasulla, quella del rapimento per mano turca. Come ho riportato nel mio libro del 2008, il primo giudice istruttore che si è occupato della scomparsa di Emanuela, Margherita Gerunda, mi ha spiegato che fu il SISDE a indicare quella pista. Secondo l’informativa fatta arrivare a Gerunda dai “servizi”, la ragazza era stata sequestrata dai terroristi turchi Lupi Grigi per scambiarla con il loro sodale Alì Agca, condannato all’ergastolo per avere sparato a papa Wojtyla in piazza S. Pietro il 13 maggio 1981. “Per evitare che i giornalisti fiutassero la novità decisi di interrogare Agca non nel mio ufficio a palazzo di Giustizia, ma all’interno della più riservata questura di Roma”, mi ha spiegato Gerunda, aggiungendo: “Grande fu il mio disappunto quando mi accorsi che qualcuno aveva avvisato una marea di giornalisti e fotografi facendoli per giunta trovare ad Agca a fine interrogatorio”. E così la pista turca, che il magistrato voleva restasse segreta anche per non bruciarla, nel giro di qualche secondo fu resa nota a tutto il mondo.
Tornando al libro della Hidalgo, è strano che la fotografa abbia proseguito i rapporti con Bruno dopo lo “scherzo” che il criminolgo le ha giocato nel maggio 2004 e di cui ho scritto nel mio libro del 2008:
Roberta è una brava fotografa romana, con un discreto curriculum di reportage dal mondo del cinema. E’ lei che a suo tempo dandosi il cambio con un collega s’è pazientemente appostata per cogliere l’occasione buona per fotografare Wojtyla nell’intimità del suo riposo in piscina in costume da bagno. Con i molti soldi di quelle foto Roberta s’è comprata la casa. Forse a causa del colpo di fortuna di quelle foto, Roberta ha pensato bene di tentare un clamoroso bis sul caso Orlandi. Un giorno in Vaticano ha incontrato una giovane donna che le pareva somigliasse alle foto di Emanuela Orlandi osservate con l’occhio del professionista. Incuriosita, ha seguito quella donna scoprendo che abitava appena fuori del Vaticano, a pochi metri da Piazza S. Pietro: per l’esattezza, in via della Traspontina 15. Roberta ha anche scoperto che viveva con il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. Insospettita dalla somiglianza, ha iniziato una serie di appostamenti nei pressi del portone di casa che è durata, incredibile ma vero, qualche anno.
Seduta in paziente attesa in auto, Roberta – ormai convinta che la sconosciuta fosse Emanuela sotto mentite spoglie – non si è limitata a scattare foto. Ogni volta che la signora scendeva per buttare il sacchetto della spazzatura nel vicino raccoglitore, del tipo cilindrico sormontato da un cono, la brava e testarda fotografa aspettava che rientrasse in casa o che andasse in Vaticano per scendere dall’auto e impadronirsi del sacchetto. E’ così che ha collezionato i reperti più diversi. Mercoledì 6 novembre 2002 la padrona di casa lascia su un post-it le istruzioni “x Antonella”: “4 ore”, evidentemente di lavoro per “Spolverare bene”, “Aspirapolvere tappeti e guide terrazzino”, “Lavare bene pavimenti e sanitari”. Sotto, un “Grazie” e la firma: “Patrizia Marinucci”, con due numeri di “Tel. ufficio I.O.R.”. Roberta ha scoperto così in un sol colpo il nome della donna, che è sposata con Pietro Orlandi e che lavora anche lei allo Ior.
Il 25 dicembre 2002 Babbo Natale con i regali lascia anche sei bigliettini: “Rebecca, devi dividere tutto con le sorelline e amare la mamma di più”; “Elettra, non devi innervosirti e piangere. Non fare i capricci”; “Salomè, devi magiare tutto”; “Patatina, non fare la lagnetta. E brava Cindy-Lou!!!”; “Pietro, devi continuare così. Lavare sempre i piatti. Portare a spasso i cani. Sei forte!”; “Patrizia, sei perfetta!! (Cura le tue mani)”. A quanto pare ci sono quattro bambine, piccole si direbbe dalle esortazioni di Babbo Natale.
Il 2 gennaio 2003 alle 14,45 circa – Roberta è molto pignola, annota tutto, e deve avere passato in auto anche buona parte del Natale e Capodanno, – la signora Orlandi butta via il solito sacchetto di rifiuti: questa volta il bottino è un bigliettino da visita intestato “Cav. Pietro Orlandi”, con stampato “Tel. 6984982” e “Città del Vaticano”, più un numero di telefonino scritto a mano. Roberta si informa, l’azienda italiana dei telefoni le dice che il numero stampato non esiste, e poi è strano che Pietro così giovane sia già Cavaliere: la mia amica cerca di convincermi che evidentemente Pietro conduce una doppia vita, una con indirizzo italiano e l’altra con recapito vaticano.
Era inevitabile che prima o poi la Orlandi moglie di Pietro buttasse via anche i tamponi mestruali usati. Quando li ha visti, senza pensarci su due volte Roberta se li è portati di corsa a casa e li ha messi in freezer. Perché? “Perché prima o poi riuscirò a procurarmi un capello di Pietro o di un altro familiare di Emanuela e confrontarne il dna con quello del sangue del tampone”, mi ha risposto Roberta. Un po’ complicato, ma geniale.
Guardando le foto della presunta Emanuela, mi ha colpito la somiglianza del suo viso con quello delle foto dell’Emanuela vera. Suggestione, probabilmente. Ma non fino al punto da non notare che i lobi delle orecchie sono completamente diversi: la vera e certa Emanuela Orlandi li aveva, ben visibili ed esaltati a volte dagli orecchini, quella presunta invece ne era quasi del tutto priva. “Se li può essere tagliati!”, mi ha ribattuto Roberta, con l’aria di chi non vuole rinunciare al suo giocattolo. Sì, ma ha anche il colore degli occhi diverso: “Può averlo fatto apposta con le lenti a contatto. E poi la grafia dei post-it è molto simile a quella delle frasi che sono state fatte trovare ai tempi della sua scomparsa”. In effetti, una certa somiglianza con la grafia del diario in mio possesso c’era, si tratta di grafie molto semplici, e il diario aveva il vantaggio di essere sicuramente di Emanuela, quella vera, quindi il confronto aveva senso. Ma la faccenda dei lobi era per me dirimente: che Emanuela se li fosse fatti tagliare per poter far finta di essere la moglie di suo fratello mi pareva una faccenda troppo macchinosa, e il rasoio di Occam obbliga invece gli onesti a privilegiare la semplicità.
Ma Roberta non demordeva. Anche perché aveva scoperto che Pietro chiamava sua moglie “Mandi” e che questa ogni tanto esponeva alla finestra una statuetta di Budda. E allora? “Ma non capisci? “Mandi” è il diminutivo di Emanuela Orlandi. E la statua di Budda deve essere un segnale a qualcuno. Oltretutto loro sono cattolici, che c’entra Budda? E’ un Budda molto particolare, cinese del 1750, l’originale si trova a Londra al Victoria and Albert Museum”.
Fu così che nell’estate del 2003 Roberta riuscì finalmente a procurarsi anche ciò che le serviva per il confronto dei dna. Si avvolse attorno alla mano destra vari giri di nastro adesivo, con la parte appiccicosa rivolta verso l’esterno, si piazzò davanti a Porta S. Anna e aspettò che la mamma di Emanuela uscisse di casa. Dopo averla seguita per un po’, a un certo punto le si accostò per fingere di inciampare e afferrarsi con la mano ai capelli della signora Maria. “Oh, mi perdoni, sono proprio mortificata! Spero di non averle fatto male”, si scusò Roberta. Arrivata di corsa a casa, mise da parte con cura anche i capelli rimasti appiccicati al nastro adesivo. Mentre ero al mare in Sardegna, utilizzando di nuovo il mini della “principessa Pignatelli”, mi è arrivato un sms: “Sto aspettando il responso delle analisi”. Oddio: incinta? “Non dire cazzate, sono le analisi dei due dna”.
Tornato a Milano, Roberta mi ha telefonato per darmi il responso: “I dna sono compatibili, perciò la donna che vive con Pietro può davvero essere Emanuela”. Scusa, ma allora le bambine di chi sarebbero figlie? “Possono benissimo essere figlie non di Pietro o essere sue e di una donna bionda che vanno a trovare nei week end in campagna vicino Roma. E poi ho appurato che la foto sulla patente di quella donna è in realtà una vecchia foto del passaporto di Emanuela”. Roberta, ormai da anni su quella pista, non c’era verso di farla ragionare. E dopo l’ambiguo responso sui dna era più lanciata che mai.
Prossima mossa? “Ho deciso di andare a parlare col criminologo Francesco Bruno, come sai lui è anche consulente scientifico del Sisde e in tale veste a suo tempo ha seguito le indagini”. A sentir nominare Bruno m’è quasi venuto un colpo, ma ho lasciato che Roberta proseguisse: “Di sicuro può far fare una perizia grafica per stabilire se la mano che ha scritto i post-it gialli trovati nei sacchetti dei rifiuti è la stessa del diario di Emanuela”.
Pentito di averle dato copia del diario, ho ribattuto a Roberta che nel ’91 o ’92 avevo parlato con Bruno, sia pure solo al telefono, ma non mi aveva fatto una bella impressione. Ha dichiarato che il teschio trovato il 14 maggio 2001 da don Giovanni Ranieri Lucci nel confessionale della chiesa di S. Gregorio VII “può essere quello di Emanuela Orlandi”…. Per non parlare delle certezze sbandierate negli anni ’80 sui perché dell’attentato a Wojtyla, di fatto il solito intruglio universale a base di tutto e del contrario di tutto. In più, aveva scritto lui l’introduzione al libro di Imposimato [“Vaticano – Un affare di Stato”]… Ma Roberta non mi ha dato retta.
E’ stato così che ai primi di maggio del 2004 è esplosa una nuova puntata del mistero Orlandi, con in scena questa volta Mandi, diventata per i giornali Mandy, all’americana come a suo tempo l’”Americano”. Titoli: “«Mandy», il giallo Orlandi in un nome”; “Il mistero della «bionda»”, che è poi la donna che a volte Pietro e Patrizia vedevano in campagna; “Manuela Orlandi, la pista delle foto”; “Emanuela Orlandi, il giallo delle foto”, dove le foto sono quelle scattate da Roberta.
Domenica 9 maggio un paginone de Il Giornale conclude: “E così il mistero resta integro. Come prima, più di prima. Eppure sarebbe interesse di tutti chiarire il giallo – se di giallo si tratta – o sgonfiare il bluff, se fosse tutta una bufala. Fino a quando mancheranno le risposte, resterà la suggestione indiscutibile del materiale raccolto nel dossier che tanto ha colpito il criminologo Francesco Bruno: somiglianze fisiche, analogie nella scrittura, foto duplicate, segnali e dettagli che sembrano indicare una doppia vita”.
Dopo qualche tempo, pensavo che l’incredibile clamore provocato dalla mia amica, o meglio da qualcuno che ha approfittato della sua fiducia o, per dirla con le parole dell’avvocato Krogh [Massimo Krogh, legale degli Orlandi assieme all’avvocato Gennaro Egidio], dal “desiderio di qualcuno di avere visibilità”, fosse ormai acqua passata. Invece è venuto a trovarmi in redazione il collega Max Parisi. Mi ha chiesto cosa sapessi di nuovo del caso Orlandi e ha parlato del “mistero Mandy”. Ho fatto fatica a non ridere, e gli ho spiegato come era nato questo inesistente nuovo mistero. Niente da fare. Max eccitato e convinto mi ha messo sotto il naso due fotocopie a colori, entrambe recanti un volto composto per metà da quello di Emanuela Orlandi delle ormai storiche foto e per metà da quello di Patrizia Marinucci in Orlandi, ricavato dalle foto scattate da Roberta. “E’ ormai certo che si tratta della stessa persona”, ha garantito Max con soddisfazione: “C’è un reparto della polizia scientifica che lo ha appurato. Vedrai che botto, finalmente verrà fuori la verità!”.
Qualcuno, meglio non dire chi, s’è divertito a mettere su Youtube un video intitolato “l’ultimo TEMA di Emanuela Orlandi”, che, con un sottofondo di musica sacra, mette a confronto per vari minuti il viso di Emanuela e quello di “Mandi”, cioè della moglie di Pietro. Un modo come un altro per insistere a dire che si tratta della stessa persona:
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