Emanuela Orlandi, tutti i misteri nei ricordi di Mons. Viganò. Grande gioco in Vaticano?

di Pino Nicotri
Pubblicato il 6 Novembre 2019 - 07:08| Aggiornato il 31 Marzo 2020 OLTRE 6 MESI FA
Emanuela Orlandi

Emanuela Orlandi, tutti i misteri nei ricordi di Mons. Viganò. Che sostiene, dopo 36 anni, di avere ricevuto una telefonata da Roma da Mons. Panciroli che non poteva esserci: Panciroli non era a Roma ma a Varsavia. Ecco il giornale che lo prova

Emanuela Orlandi. Il mistero che da 36 anni avvolge la scomparsa di Emanuela Orlandi si arricchisce di altri misteri. Il più recente è quello della telefonata che monsignor Carlo Maria Viganò sostiene di avere ricevuto la sera del 22 giugno 1983 una mezz’ora dopo che di Emanuela si persero le tracce. Viganò infatti ha “rivelato” al giornalista Aldo Maria Valli che la telefonata con la quale gli è stato comunicato che i “rapitori” s’erano già fatti vivi col Vaticano, gli fu fatta dal responsabile della sala stampa vaticana Romeo Panciroli.

Viganò ha aggiunto che Panciroli subito dopo la telefonata gli inviò via fax la trascrizione della telefonata, che dava Emanuela già “prigioniera”. Cose impossibili perché risulta che Panciroli era a Varsavia con Papa Wojtyla, rientrando in sede solo il giorno dopo, 23 giugno. Pietro Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò farebbero bene a chiedere l’elenco dei componenti del seguito che accompagnò Wojtyla nel viaggio pastorale in Polonia, così potrebbero verificare dov’era davvero Panciroli.

Invece chiedono ad alta voce, sottintendendo al solito chissà quali cose losche, che il Vaticano cerchi in archivio ed esibisca quel fax e le altre carte che Viganò afferma essere state consegnate “quella sera stessa al dottor Volpe, dell’ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano”. Le altre carte a detta di Viganò sarebbero: “una lettera, firmata da un sedicente rifugiato di un paese dell’Est Europa, il quale diceva di trovarsi in un campo profughi in Friuli e chiedeva asilo politico in Vaticano.

Alla lettera allegava una sua fotografia formato tessera e un certificato della sua iscrizione al medesimo istituto di musica sacra frequentato da Emanuela Orlandi”. Qui c’è già una prima imprecisione. La scuola di musica frequentata da Emanuela si chiamava per la precisione Scuola Pontificia di Musica Ludovico Da Victoria, ma pur essendo proprietà del Vaticano NON insegnava solo musica sacra. Tralasciamo.

E procediamo. In ogni caso, una volta appurato che il “sedicente rifugiato” non era iscritto al Da Victoria quella lettera non serviva a nulla. E’ ormai assodato, dalla testimonianza di Laura Casagrande, che di Emanuela si perdono le tracce vari minuti dopo le ore 19, ora in cui è uscita con gli altri studenti dalla scuola di musica, all’epoca sita in pieno centro di Roma, nel palazzo di S. Apollinare nella omonima piazza. Uscita con tutti gli altri studenti e dopo avere aspettato con Raffaella Monzi e tentato inutilmente di prendere il 70, troppo affollato, Emanuela si è avviata in gruppo anche con la Casagrande verso la più vicina fermata del 64, il secondo autobus che avrebbe dovuto prendere per tornare a casa. Le fermate più vicine erano due: quella di piazza di Torre Argentina, a sinistra di piazza di S. Andrea della Valle dove terminava e termina tutt’oggi corso del Rinascimento, e quella di corso Vittorio Emanuele II alla destra della stessa piazza.

Tra uscita, arrivo alla fermata del 70, rinuncia a salire perché troppo affollato e percorso a piedi con gli altri verso piazza S. Andrea della Valle, non possono essere ragionevolmente passati meno di 20-25 minuti. La telefonata dei “rapitori”, di cui parla a scoppio stranamente ritardato di “appena” 36 anni don Viganò, è stata quindi fatta a razzo, non appena messe le mani su Emanuela.

Tralasciamo che NESSUNO può avere telefonato in sala stampa vaticana a quell’ora ed essere riuscito a parlare con qualcuno dato che la sala stampa chiedeva alle ore 14. Tralasciamo anche che Panciroli risulta fosse non in Vaticano, bensì a Varsavia, tralasciamo anche che la Segreteria di Stato chiudeva e chiude alle ore 20, orario dopo il quale non risponde più nessuno né al suo centralino né agli altri suoi due numeri sia se chiami dall’interno del Vaticano sia se chiami dall’esterno. Tralasciamo. Ma non si possono tralasciare anche una serie di altri fatti. Vediamo quali. Viganò nell’intervista afferma:

1) – “Erano le dieci di sera passate e con monsignor Sandri chiamammo immediatamente il responsabile dell’archivio perché ci desse quel documento [la lettera del rifugiato dell’Est], che consegnammo in copia quella sera stessa al dottor Volpe, dell’ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano, perché facesse le opportune indagini”. Poiché Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, è andata proprio all’ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano a fare la denuncia di scomparsa la mattina del 23, cioè il giorno dopo i fatti asseriti da Viganò, è sbalorditivo che NESSUNO le abbia accennato quanto già a conoscenza di Volpe.

Ancor più sbalorditivo che non le abbiano detto nulla neppure quando è tornata allo stesso ispettorato per mettere a verbale che il suo fidanzato, Andrea Mario Ferraris, con altri aveva trovato in corso del Rinascimento due (presunti) testimoni: il vigile urbano Alfredo Sambuco e il poliziotto Bruno Bosco. E’ il verbale che dà inizio al deragliamento delle indagini. All’inizio vi si legge infatti che il vigile e il poliziotto avevano visto una “ragazza che somigliava a Emanuela” e alla fine dello stesso verbale si legge invece che avevano proprio “visto Emanuela”.

2) – “ I suoi genitori [di Emanuela, ndr], costernati, vennero in segreteria di Stato dai miei superiori”. Anche qui c’è qualcosa che non quadra. Quella sera stessa infatti il padre e il fratello di Emanuela, Ercole e Pietro, andarono prima a cercarla al Ludovico Da Victoria e poi per fare denuncia di scomparsa andarono al commissariato di polizia più vicino, il commissariato Trevi in piazza del Collegio Romano.

Il commissario di turno li fece desistere dall’idea di presentare già la denuncia, consigliando invece di aspettare perché “si tratterà della solita ragazzata, magari in pizzeria fino a tardi con amici”. Ciò significa che quella sera NESSUNO ha avvertito “i suoi genitori costernati” della telefonata dei “rapitori”.

3) – I genitori di Emanuela potrebbero però, in via ipotetica, essere stati avvertiti in seguito. Ma allora NON si spiega perché NON ne hanno mai parlato neppure coi magistrati nei mesi e negli anni successivi. Infatti in NESSUN atto giudiziario e in NESSUNA delle loro deposizioni testimoniali si parla o anche solo si accenna alla telefonata che Viganò dice essere stata ricevuta in sala stampa e poi comunicata prima a lui e quindi ai genitori.

4) – “In segreteria venne più volte anche un loro avvocato per avere informazioni”.

Non si spiega però come mai nessun avvocato, Gennaro Egidio e Massimo Krogh, ne abbia mai parlato. Non ne ha mai fatto cenno neppure Ferdinando Imposimato, dal 2001 aggiunto come legale di Maria Pezzano, madre di Emanuela. Nelle molte conversazioni ed e-mail che io ho avuto con tutti e tre gli avvocati e nelle molte interviste e presenze televisive di Egidio e Imposimato nessuno ne ha mai fatto neppure il minimo cenno.

5) – Valli nell’intervista chiede a Viganò: “In seguito, alle comunicazioni dei presunti rapitori venne riservata una linea telefonica, con il numero 158. Anche lei rispose al telefono?”. E Viganò risponde senza esitazione: “Sì, ricevetti anch’io alcune telefonate da quello che i media chiamarono “l’americano”. Le telefonate erano in italiano, ma dalla pronuncia di quell’uomo capii che non si trattava di un americano; piuttosto di qualcuno che aveva inflessioni proprie dei maltesi”.

Premesso che NON si trattava di comunicare “con il numero 158”, ma solo di presentarsi al solito centralino vaticano dicendo “codice 158”, codice peraltro reso noto quasi subito dall’ANSA e dai giornali, c’è da notare un particolare: il nome di Viganò non compare in nessuna annotazione delle telefonate nel block notes contenente la cronistoria degli interventi effettuati dai tecnici sul centralino vaticano nel periodo che va dal 12 luglio al 23 agosto 1983. Il block notes è stato trasmesso al giudice istruttore italiano Adele Rando il 7 giugno 1994. Il Vaticano ha barato? Lo si può verificare chiedendo alla polizia italiana, alla luce di quanto trasmesso il 22 aprile ’94 dall’ispettore generale della Vigilanza pontificia Camillo Cibin all’”Illustrissimo signore Marrone avvocato commendator Gianluigi, giudice del tribunale”: “in quel tempo, le Superiori Autorità autorizzarono specialisti italiani a installare dei congegni nella centrale telefonica di questo Stato per collegare alcune linee telefoniche vaticane con la sede investigativa italiana per le audizioni e le registrazioni di eventuali conversazioni telefoniche riguardanti il sequestro della giovane”. E tralasciamo la circostanza tenuta sempre nascosta, ancora oggi, che Marrone, giudice del tribunale vaticano e contemporaneamente capo dell’Ufficio legale della Camera dei Deputati italiana, in quest’ultimo Ufficio aveva come segretaria Natalina Orlandi, sorella di Emanuela. Viganò prosegue:

6) – “L’interlocutore si limitava a chiedere di voler parlare unicamente con il cardinale Casaroli e fu quello il motivo per cui a un certo punto fu creata una linea riservata [quella riservata a chi si presentava al centralino dicendo “codice 158].

“Da parte nostra fu fatto tutto il possibile per far sì che questo interlocutore potesse parlare con Casaroli. Vennero fissati diverse volte appuntamenti telefonici. “Ma il cardinale rimase in attesa inutilmente, perché quell’individuo non rispettava mai l’orario stabilito e, forse per evitare che venisse identificata la località da dove proveniva la telefonata, richiamava magari un’ora o due ore dopo”. Di tutto ciò non c’è nessuna traccia né nel block notes né in quanto trasmesso alla magistratura dalla polizia italiana.

7) – “Oltre al segretario di Stato e al sostituto, anche l’assessore Giovanni Battista Re e naturalmente anche monsignor Dziwisz [segretario personale di Wojtyla, ndr] furono tra le persone allora in servizio in segreteria di Stato che certamente vennero a sapere nei dettagli quanto avvenne e le decisioni prese al riguardo”. Non si spiega allora come mai consignor Re rispose “Lasciamo le cose come stanno” quando monsignor Salerno, responsabile della Elemosineria Vaticana, gli si mise a disposizione dicendo che avrebbe scandagliato le sue varie conoscenze in campo non solo finanziario per acquisire notizie sulla sorte di Emanuela. Il rifiuto di Re monsignor Salerno lo ha messo nero su bianco in una deposizione davanti al giudice istruttore Adele Rando. Potremmo continuare. Ma per demolire le affermazioni di Viganò penso possa bastare. C’è da dire anche altro, a latere e contorno, ma lo faremo in seguito.