ROMA – Antonio Mancini, il pentito della banda della Magliana e del libro intervista con Federica Sciarelli, è tornato a fare titolo con le ultime evoluzioni del caso Orlandi,ma ha dato anche nuovi argomenti contro l’eccessiva credibilità data ai pentiti e al loro uso.
Péntiti, conferma quello che ti chiedono di confermare, è l’esortazione di Mancini alla sua donna di quell’epoca, Fabiola Moretti. In cambio, aggiunge, ci daranno una casa di cinque stanze, utenze pagate e cinque milioni al mese: “Io non ce posso sta’ in mezzo a ‘sta merda, se me voi salva’, levame da ‘sta merda… Ma no lo vedi che ho fatto 30 anni de galera?”. Siamo al 1994 e Mancini, nuovamente in carcere da pochi mesi, con la prospettiva di restarci ancora decenni per cinque omicidi, sta maturando la decisione di pentirsi, guadagnandosi la possibilità di uscirne nel 2002.
Sono lati oscuri del suo passato, riemersi da una rilettura di vecchie intercettazioni, stimolata dalla certezza con cui Mancini ha attribuito a Enrico De Pedis una parte importante nel favoleggiato rapimento di Emanuela Orlandi.
In una intervista di metà maggio 2012 a Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani del Fatto Quotidiano Mancini ha accusato De Pedis di essere stato lui a guidare l’auto sulla quale fu fatta salire la Orlandi il giorno del rapimento, il 22 giugno 1983. Vent’anni fa aveva, con uguale sicurezza, accusato De Pedis di avere fatto uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Le sue accuse recenti sono rimaste su una pagina del Fatto, senza che nessuno le rilanciasse. Quelle sul caso Pecorelli furono un po’ più dure a smantellare, costarono molto denaro allo Stato e molta pena a chi era stato accusato di essere il mandante, in particolare a Giulio Andreotti, all’epoca potente dirigente politico e uomo di governo della Democrazia Cristiana.
De Pedis sembra quasi la fissazione della vita di Mancini. Anche se con gli spettacolari recenti accertamenti nella basilica di S. Apollinare a Roma, la pista De Pedis sembra essere crollata definitivamente, a gridare il contrario è sceso in campo l’Accattone, come veniva chiamato ai bei tempi Mancini, l’ex membro della cosiddetta banda della Magliana condannato a 35 anni di galera per cinque omicidi, entrato in carcere nel marzo 1981 e uscito nel 2002.
Non è la prima volta che l’Accattone attribuisce a Enrico De Pedis delitti dei quali non può sapere nulla di preciso perché avvenuti mentre lui si trovava dietro le sbarre. Oggi gli appioppa il rapimento della Orlandi, arrivando a specificare che “De Pedis guidava l’auto con la quale venne sequestrata”. Negli anni ’90 gli ha già appioppato l’omicidio Pecorelli, avvenuto il 20 marzo ’79, sia pure cambiando disinvoltamente versione un sacco di volte.
Quando lo arrestarono nell’81, a conclusione della sparatoria omicida di via di Donna Olimpia, Mancini era uscito dal carcere da appena 5 mesi, per l’esattezza nell’ottobre 1980. Il che significa che lui era in carcere sia quando è scomparsa la Orlandi, il 22 giugno 1983, sia quando è stato ucciso il giornalista Mino Pecorelli, omicidio, ripetiamo, avvenuto il 20 marzo ’79. Non a caso è la sua stessa compagna dell’epoca, Fabiola Moretti, che all’udienza del 1° aprile 1998 avanti la Corte di Assise di Perugia per il delitto Pecorelli distrugge la credibilità dell’Accattone. Alla domanda se Mancini fosse stato un capo della “Banda della Magliana”, come lui stesso sosteneva, la Moretti testualmente rispondeva: «Capo de che? Mancini Antonio [parla] per sentito dire, perché si è fatto sempre tanti anni di galera, quindi quello che poteva dire glielo aveva detto Pasquale o glielo aveva detto Giovanni, quando s’erano incontrati da una cella a un’altra».
Fabiola Moretti l’8 aprile 1994 ha avuto un colloquio invstigativo con due funzionari della DIA e, sempre a proposito di Mancini, nel corso del quale sbotta: «… Ma che po’ di’ sto c… de Mancini? … che è stato sempre carcerato… quello che j’hanno raccontato i morti? Bisognerebbe falli resuscità pè vede se è vero». Poi la donna mentre parla con i due investigatori si sfoga come se avesse Mancini davanti: «… tu nun sai gnente! Tu te stai ad aggiustà i prosciutti tua! Tu nun sai gnente! Tu stai a pia’ in giro a me, a ‘stì pôri disgraziati [ndr: vale a dire, i due funzionari della DIA a colloquio con lei] e a te stesso … perché uno che dice: “Me l’ha detto De Pedis” – che è morto … ma chi o risuscita ‘sto De Pedis …».
Per avere accusato De Pedis dell’uccisione di Pecorelli è stato condannato per calunnia un altro pentito della malavita romana di quell’epoca: Vittorio Carnevale, noto anche come Vittorio Carnovale perché per ingannare il casello giudiziario aveva cambiato in “o” la “e” del suo cognome nella carta di identità. Carnevale-Carnovale era infatti arrivato ad accusare De Pedis di essere stato assieme con Danilo Abbruciati il killer di Pecorelli, smentito però in modo inappellabile dal fatto che entrambi gli accusati in quel periodo erano chiusi a chiave in carcere.
Pur di accreditarsi come pentito ed evitare così di restare in carcere per tutti i 35 anni di condanna per i cinque omicidi, l’Accattone Mancini ha tentato di convincere la Moretti ad accontentare gli inquirenti dicendo loro tutto quello che volevano sentirsi dire e accusando anche lei De Pedis di avere ordinato l’uccisione di Pecorelli. A questo proposito vale la pena leggere almeno parte delle pagine 295-301 del mio libro “Cronaca criminale”, nelle quali sono riportate alcune intercettazioni ambientali e telefoniche di colloqui tra Mancini e Moretti e di un colloquio tra quest’ultima e una sua amica.
Mancini ha avuto infatti una fitta serie di colloqui nel periodo d’interesse anche con Fabiola Moretti. In particolare il 2, il 3, il 9 e il 12 marzo 1994. Inoltre, dalle intercettazioni telefoniche eseguite sull’utenza della Moretti è risultato che il Mancini, mentre era detenuto presso la Casa Circondariale de L’Aquila, ha comunicato con la compagna numerosissime volte. E che cosa si sono detti è stato in parte ricostruito sia in una intercettazione ambientale durante un colloquio, avvenuto tra i due il 6 maggio nel 1994 nel carcere de L’Aquila, sia dalle telefonate intercettate sull’utenza della Moretti. Mancini già era collaboratore per l’operazione Colosseo [ndr: iniziata il 16 aprile ’93 con 69 mandati di cattura, ma demolita in sede processuale], la Moretti era restia a pentirsi e si “pentirà” solo l’8 maggio del 1994.
Intercettazione ambientale – L’Aquila 6 maggio 1994:
FABIOLA: “Ti fidi di quello che ti dicono?”
ANTONIO: “Mi fido”
FABIOLA.: “Che cosa dicono?”
ANTONIO: “Quello che vuoi, praticamente, quello che mi spetta”
FABIOLA: “E che cosa ti aspetta?”
ANTONIO: “Una casa, da stabilire, di cinque stanze, fuori Roma”.
FABIOLA: “In Italia?”
ANTONIO: “Al momento, al momento. In tutto ci danno cinque milioni al mese, luce pagata, tutte le spese pagate”.
Ed ancora:
FABIOLA: “E allora?”
ANTONIO: “E allora niente, te danno casa con quattro stanze, più quella della bambina che sta arrivando”.
FABIOLA: “E io con te quando ci sto?”
ANTONIO: “Eh?”
FABIOLA: “E io con te quando ci sto?”
ANTONIO: “Subito”
FABIOLA: “Subito quando?”
ANTONIO : “Adesso”.
FABIOLA: “Come adesso?” ,“Si (ride) te posso porta’ a casa con me?”
E ancora:
A.: “Dal momento in cui parliamo, noi veniamo presi e spostati”.
F.: “Vabbé, insomma, io ce devo parla’ pe’ ’sti fatti, a livello de sordi”. (cioè “soldi” in romanesco, ndr)
A.: “Sordi”.
F.: «E io che je devo di’? “Ma cinque milioni che ce famo? Semo in cinque”, je devo di’ così?»
[…..]
A.: “Quindi vai a sbatte su quattro milioni e in più ce stanno le tantum, una tantum”.
F.: “Praticamente, ce danno circa cinque milioni al mese”.
A.: “Sui cinque milioni, senza … non paghi luce, non paghi gas, non paghi affitto, non paghi un c…. ‘… Poi se dovemo anna’ in Australia, ’nnamo in Australia”
F.: «m’ha detto: “Ma signora, lei…”. Eh, m’ha fatto, dice: “Lei è proprio una cosa terribile”.»
A.: «Sì, ma n’î fa’ sti discorsi co’…»
F.: «… “E damme cinquanta milioni…” gli ho detto (ride). Dice: “Ma io non sapevo che fa’…”. Embé, faccio tutto io».
[….]
F.: “Amore, senti, quello lì mi ha domandato se tu conoscevi Renato, Danilo, io ho detto di sì”.
A.: Certo”
F.: “Che ne so?”
A.: “L’ho detto pure io. Senti, Fabì, sulle richieste, se ci sono richieste da accettare, bastona forte. Chiedi tutto quello che devi chiede, hai capito? Perché se non fai il pratico, te lo mettono in culo, OK?”.
[….]
A.: “Che ha detto?”
F.: “Che io so un’esosa perché non mi accontento di cinque”.
A.: «Cinque milioni?»
F.: “Ma che ce faccio?”
[…..]
A.: «Senti… sette, se ci vonno dà, sinnò niente. Tu non ti preoccupà, amò. Noi fidiamoci di quello»…. «…Tu metti tutto, poi, vai un attimo a parlare con lui. Tu metti tutto quello che a noi ci fa comodo».
F.: «Ma io lo sapevo, te l’avevo detto dall’inizio, questi da un dito vonno un braccio».
A.: «Ma lo avranno solo quando ci mantengono tutte le promesse che hanno fatto».
MANCINI: «Io non ce posso sta in mezzo a ‘sta merda, se me voi salvà, levame da ‘stà merda… Ma no lo vedi che ho fatto 30 anni de galera?!»
La Moretti resiste, ma Mancini insiste, lei replica «Io non so’ bona”» e lui le dice: «No, tu basta che gli confermi alcune cose… per esempio ’sta storia de Vitalone… tu je dici: si l’ho visto con Danilo, però non te firmo niente».
Nel corso del colloquio avuto con Mancini nel carcere di L’Aquila, colloquio come già detto intercettato, la Moretti racconta al compagno le “pressioni” a cui era stata sottoposta da parte degli investigatori.
FABIOLA, riferendo quanto le ha detto un investigatore: «“Allora signora, le debbo dire che siccome se … prima io non sapevo bene la… adesso siccome io so che lei sa, io sarò la sua ombra, faccia conto che lei mi ha sposato”. Dice [l’investigatore]: “Lei c’ha due possibilità: o si pente, o io la mando al carcere per reticenza”. Dico: “Vabbé, tanto so’ sei mesi”. Dice “No, le faccio pagare anche il concorso”. “Ma concorso de che?”. “Il concorso de Pecorelli. […] Al limite, chiedemo aiuto, se non pagherà quello di Pecorelli, pagherà quello di Barbieri [Massimo Barbieri, ucciso il 18 gennaio ’82]”. Lo sai, lì me so fatta coraggio. Gli ho detto “Vabbé, pagheremo”, però dopo me so’ messa paura. […] io me so’ cacata sotto! Capito come?»
Nell’ascoltare il racconto delle pressioni rivolte alla Moretti, il Mancini inveisce: “Se io sapevo che t’hanno minacciato, io menavo a uno della DIA … annavo all’ospedale e poi je spiegavo tutto … ma che ne sapevo che t’hanno minacciato!”.
Ma quello che emerge dalle intercettazioni non erano solo pressioni ma anche, come dire, le aspettative degli inquirenti. Intercettazione telefonica tra la Moretti e una donna, forse Natascia, la figlia di Antonio Mancini: «…. ma io Andreotti non ce lo posso fa arrivà, co tutta la bona fantasia, ma non lo conosco. Hai capito che te voio dì?»
La Moretti si confidava al telefono con una sua amica, tale Pasquina, alla quale spiegava il meccanismo dell’operazione: «“Io te dico pentete, anche perché non devi chiamaaa … Giovanni, Pasquale e Michele, capito come? Devi soltanto dire che De Pedis Renato gli ha detto di uccidere Pecorelli».
Dalle intercettazioni emergono contratti continui degli inquirenti con la Moretti. La Moretti parla con Natascia, figlia di Mancini:
FABIOLA: “Pe’ fatte capì Natà, mo’ che se vonno inventà? Perché … perché la mattina m’ha telefonato al cellulare”.
NATASCIA: “Si?”
FABIOLA: «Dice “Ciao, ti ricordi di me?”. Dico “ No, chi sei? Ma che sei un amico mio?”. Dice: “Si”. “Ma che avemo fatto qualche impiccio insieme?” … “Soltanto che io vorrei venire..”, “No aspetti, ammollame a me”.