La conclusione della vicenda di cronaca nera famosa come “il delitto di via Poma” non mi convince. Non mi convince la sentenza, non mi convincono le pene accessorie e non mi convince la reazione del condannato. Ma andiamo per ordine.
Dopo oltre 20 anni, chi ha massacrato con 29 fendenti la ventunenne Simonetta Cesaroni il 7 agosto 1990 ha finalmente un nome: quello del suo fidanzato, Raniero Busco, condannato a 24 anni di carcere, all’interdizione dai pubblici uffici e, cose del tutto nuove negli annali giudiziari, anche alla sospensione della patria potestà e a risarcire il comune di Roma “per danni all’immagine”. Ma è il nome giusto? I giudici devono esserne più che convinti, a giudicare non solo dalla pesantezza della condanna, ma anche dalla velocità con la quale hanno emesso la il verdetto: poco più di tre ore di camera di consiglio. Per capire i motivi della loro sicurezza dobbiamo aspettare di poter leggere le motivazioni della sentenza, quando le depositeranno. Stando però a quanto è emerso in aula nel corso del dibattimento si può per ora dire che le motivazioni paiono davvero deboli. Se è vero che alla base della condanna di Busco ci sono le tracce di saliva sul reggiseno e l’impronta di un morso sul seno della vittima, allora si possono muovere due obiezioni. La prima è che non è affatto detto che Simonetta il giorno della sua uccisione sia arrivata in ufficio con un reggiseno non usato anche il giorno prima. Il problema non è che i giovani, maschi e femmine, non sempre sono maniaci della pulizia e che le ragazze puntano più sull’aspetto estetico che su quello non visibile, il problema è che le donne dal reggiseno non cambiato ogni giorno sono milioni anche in Italia. Per esempio, tanto per restare nel campo della cronaca nera, i periti fecero rilevare che la signora Anna Maria Franzoni, la madre che uccise il proprio bambino, non era molto pulita proprio in quanto a biancheria intima. Il particolare della saliva di Busco sul reggiseno di Simonetta Cesaroni NON può essere quindi la prova regina. Si tratta di un indizio, ma certo non di una prova con la quale inchiodare una persona a 24 anni di galera. Per condannare un imputato, specie a pene così severe, ci vogliono prove che vadano oltre “ogni ragionevole dubbio”. Purtroppo, non è questo il caso.
Idem per quanto riguarda il morso sul seno della ragazza: può trattarsi di un morso dato il giorno prima dell’uccisione. Con l’aggravante che essendo stato rilevato solo dalle foto del cadavere non si può dire sia un argomento solidissimo. Come è possibile, basandosi solo su foto e non sull’autopsia, tanto meno su rilievi specifici di periti sul cadavere, affermare che si tratta di un morso dato “in contemporanea con l’uccisione”? Non dubito che l’impronta del morso sia “compatibile con l’arcata dentaria di Busco e con la sua anomala occlusione mandibolare”, ma – visto che non si tratta di impronte digitali – non si può affatto escludere che ci siano altri con arcate dentarie e occlusione mandibolare simili alle sue. E’ come dire che si condanna un imputato di omicidio perché è mancino come risulta esserlo l’autore del delitto. Beh, ma di mancini ce ne sono a iosa. O no? Non risulta siano stati fatti accertamenti anche su arcate dentarie di altri indiziati o indiziabili.
C’è poi una terza carta in mano all’accusa, ma a me pare carta straccia. Per 16 anni nessuno s’è “filato” Busco, perciò ha dovuto ricostruire i suoi movimenti con ben 16 anni di ritardo: qualche inesattezza o vuoto di memoria è più che possibile. Due vicine di casa hanno affermato che Busco nell’ora del delitto era da tutt’altra parte, non in via Poma, e un altro testimone prima ha detto – dopo 16 anni – che ricordava anche lui Busco da tutt’altra parte, poi però – dopo altri 4 anni – ha detto di non esserne più tanto sicuro. Domanda: come si fa dopo 20 anni – ripeto: 20 anni! – ad essere sicuro di qualcosa che non riguarda neppure se stessi, ma un’altra persona? Riguardo l’ora del massacro della Cesaroni, le ultime affermazioni dei periti contraddicono le prime. A quali credere? Le ultime possono suscitare il sospetto di essere state rese adatte a incastrare Busco. Sospetto brutto, ma legittimo. E in ogni caso: se dopo 20 anni è difficile ricordare un particolare riguardo un’ora, diventa pressocché impossibile ricordarsi qualcosa riguardo un’altra ora, per il semplice motivo che per 20 anni di fila alla nuova ora uscita infine a sorpresa dal cilindro del perito non è stata attribuita nessuna importanza e quindi NON c’era nessun motivo perché qualcuno tenesse a mente qualcosa in un arco di tempo che non interessava a nessuno.
Come si vede, quelle che pare siano le tre carte principali in mano all’accusa risultano troppo deboli, se non aleatorie. E comunque, come è tristemente noto, è troppo contorta l’intera storia delle indagini e dei vari processi ai vari presunti assassini della Cesaroni. Ma proseguiamo.
La reazione di Busco mi pare troppo esagerata. Capisco che una condanna per omicidio è un macigno per chiunque, specie se condita con la sospensione della patria potestà quando si è padre di due figli, ma a me la reazione di Busco pare più quella di uno che era convinto di averla fatta franca e che si vede sbugiardato su tutto il fronte. Capisco che la mia sensazione è ingenerosa, anche perché ignoro se Busca abbia un carattere forte o debole, però per onestà intellettuale se sciorino i dubbi sulla sentenza non posso nasconderne neppure uno.
Gli altri dubbi riguardano la stranezza del dover rimborsare il comune di Roma Per “danni all’immagine”. Che significa? Confesso che non l’ho capito. In ogni caso: come mai questo è – se non sbaglio – il primo caso in cui un assassino viene condannato anche a pagare i danni “all’immagine” del comune dove è avvenuto il delitto. Che dire di Amanda e Sollecito? Che dire degli autori della lunga serie di delitti “passionali” o di interesse materiale? Che dire dei responsabili della infinita serie di omicidi della Camorra, della ‘ndrangheta, della sacra corona unita e della mafia? Non hanno forse ridotto a colabrodo l’immagine non solo del comune di appartenenza, ma anche dell’Italia intera anche agli occhi del resto del mondo? Fossero tutti condannati anche al risarcimento di questo tipo di danni, le casse dei comuni non sarebbero in passivo….
Riguardo la sospensione della patria potestà, credo sia una buona novità quella di sospenderla agli assassini. Però prima di sospenderla a un Busco avrebbe dovuto essere sospesa quanto meno ai killer e annessi mandanti e membri delle “cupole” di mafia, camorra, sacra corona unita e ‘ndrangheta, che se la fanno da padroni da decenni. Oltretutto, è infatti provato che le varie mafie si riproducono di padre in figlio, sono cioè i padri che allevano figli per la mafia e annessi delitti, mentre i Busco NON allevano figli killer per conto terzi né assassini in proprio. Sono troppi in casi in cui è accertato che i mafiosi in galera, spesso feroci pluriomicidi, approfittano dei colloqui con i figli per ordinare loro vendette e punizioni sanguinose e sanguinarie. Perché mai si permette che questo andazzo a catena continui a seminare morte e distruzione? Forti con i deboli alla Busco e deboli con i forti alla Totò Riina&C? Temo sia proprio così. Ma se è così, NON si tratta di giustizia. O no?
Se posso dire la mia – e so bene che verrò preso a sassate – Busco è rimasto vittima, colpevole o innocente che sia, del fatto che sia il pubblico ministero che il presidente della terza Corte sono donne. Per carità, non è che abbiano agito in malafede, ma non è irragionevole pensare che abbiano istintivamente avuto qualcosa contro l’imputato – per giunta ex fidanzato, ma non tropo innamorato – nella fallace ma altrettanto inconscia convinzione che colpendo lui rendevano giustizia alla Cesaroni, donna anche lei. A me Busco non piace, neanche un po’, non per questo debbo tacere i miei dubbi anche riguardo certo malinteso “femminismo”. Che oltretutto, in epoca di bunga bunga e mercificazione a tutti i livelli del corpo e del ruolo della donna, può “sfogarsi” solo sui deboli, vale a dire su gente ben lontana da Arcore e dintorni…
Intendiamoci: in un Paese civile le sentenze si rispettano. Si possono certamente criticare, ma la sede per eventualmente demolirle e capovolgerle sono l’appello e in terza istanza la Cassazione. E’ perciò fuori luogo urlare contro la sentenza e chi l’ha emessa. Personalmente sono convinto, a meno di clamorose novità nelle motivazioni della sentenza, assai improbabili, che in appello Busco – nel frattempo non in galera, ma a casa sua – verrà assolto. E che la Cassazione confermerà l’assoluzione. Per il semplice motivo che è meglio un colpevole libero che un possibile innocente in galera.
Certo, spiace che nel frattempo vada come va. Ma il vivere di una società non è esente da rischi e errori. Si può finire all’ospedale o all’altro mondo anche solo attraversando la strada o mentre si è onestamente al lavoro, perciò è possibile anche finire sotto le ruote di una sentenza sbagliata. Non a caso abbiamo tre gradi di giudizio, anziché solo uno o due come in molti altri Paesi. Avere ben tre gradi di giudizio è prova di civiltà.
Termino con una annotazione riguardante il giornalismo. Come per il caso di Emanuela Orlandi, attorno al delitto di via Poma è stato fatto pessimo giornalismo. Cito solo un caso: il suicidio, avvenuto nel marzo dell’anno sorso, del portinaio di via Poma, Pietrino Vanacore (il primo arrestato per il delitto). C’è chi scrive che “è stato trovato affogato in mezzo metro d’acqua, nel mare di Maruggio, in Puglia”, poi però si termina l’articolo dicendo che “se ne è andato via con una corda al collo”. Non manca chi scrive che s’è suicidato gettandosi non in mare, ma in un fiume, sia pure “con una pietra legata al collo”, chi scrive che “si è legato ad un albero per una caviglia e si è gettato in acqua in località Torre Ovo, vicino Torricella”, e chi scrive che avrebbe anche “ingerito dell’anticrittogamico che aveva portato con sé in una bottiglietta”. Confusione anche riguardo il biglietto o i biglietti con il quale Vanacore ha spiegato che a spingerlo al suicidio è il perdurare dei sospetti su di lui: chi scrive che li ha lasciati attaccati all’albero al quale s’è legato per la caviglie e chi scrive invece che li ha lasciati in macchina e in garage. Se questo è giornalismo….
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