ROMA – Dopo i piccoli colpi di scena riguardanti il mistero Orlandi e il mistero Gregori, ecco, come avevamo promesso, il terzo. Che riguarda l’uccisione del dodicenne Josè Garramon, investito il 20 dicembre 1983 sul viale di Castelporziano, nella pineta di Castelfusano vicino Ostia Lido, da un furgone Ford Transit guidato da Marco Fassoni Accetti, il “reo confesso” che molto poco credibilmente si è auto accusato dei “finti rapimenti” sia di Emanuela che di Mirella.
Dall’accusa di omicidio volontario di Josè Accetti è stato assolto, con formula dubitativa, perché ha basato la sua difesa sull’impossibilità di poter essere sul luogo dell’investimento all’ora in cui è avvenuto, vale a dire qualche minuto prima delle 19:40.
Infatti, partendo da casa sua in piazza S. Emerenziana 2, nel quartiere Africano, tra le 18,30 e le 19 , se fosse davvero passato a prelevare Josè all’EUR, dove il ragazzino abitava, Accetti non avrebbe potuto trovarsi in viale di Castelporziano all’ora in cui Josè veniva travolto. Il fotografo ha raccontato che il portiere dello stabile dove abitava doveva averlo visto uscire di casa tra le 18,30 e le 19 e che stava andando a Ostia per fare un servizio fotografico a una ragazza, Novella Farnedani, senza neppure avvisarla, e che s’è trovato sulla via della pineta perché aveva sbagliato strada.
Per andare a Ostia, una volta partito da piazza S. Emerenziana aveva imboccato man mano la tangenziale, percorrendo la parte che costeggia piazza S. Giovanni, via delle Terme di Caracalla e infine via Cristoforo Colombo, che conduce proprio a Ostia. La verifica fatta dall’allora giudice istruttore, con la presenza dell’imputato e del legale dei Garramon, ha appurato che il tragitto indicato da Accetti non poteva essere compiuto in meno di un’ora. Se fosse passato per l’Eur ci sarebbe voluto molto di più di un’ora, dato anche il forte traffico del fine pomeriggio e inizio serata.
La ragazza e sua madre, Daniela Iodice, hanno però smentito che Accetti potesse essere davvero diretto a casa loro perché la giovane si era accordata per le foto dopo Natale e non prima. Dal canto suo, il portiere ha smentito di averlo visto uscire. I giudici, pur convinti che la versione data dall’imputato del perché si trovasse a quell’ora in quella zona fosse falsa, si sono quindi risolti a condannarlo per omicidio colposo aggravato e omissione di soccorso.
Accetti ha anche sempre sostenuto di non essersi accorto di avere investito una persona, ma che era convinto che il “botto” dell’urto fosse dovuto a qualcuno che lanciandogli contro un sasso gli aveva mandato in frantumi il parabrezza. Che Accetti potesse aver mentito su questo punto, come ha ammesso con 30 anni di ritardo, lo dimostravano anche le condizioni del furgone.
Accetti ha evitato l’ergastolo solo perché un suo amico fotografo, Gherardo Gherardi, qualche tempo dopo la smentita del portiere ha testimoniato che attorno alle 18,30 il suo amico gli aveva chiesto un contenitore per la sua attrezzatura fotografica e che, non trovando di meglio, si era accontentato di una cesta.
E’ difficile, ma non impossibile, credere che un fotografo professionista come Accetti, per giunta uso a fare servizi fotografici come quello che a suo dire avrebbe voluto fare ad Ostia, non avesse un contenitore per i suoi attrezzi. E infatti nella sentenza i giudici hanno scritto che anche la testimonianza di Gherardi li lasciava dubbiosi.
In effetti, a guardare la foto della cesta i dubbi aumentano: si tratta di una cesta-borsone di vimini dotata di due manici e alta più di 60 centimetri, del tipo usato per andare in spiaggia o per fare una robusta spesa al mercato o un picnic. Difficile vederla in un negozio o laboratorio fotografico. E non risulta che siano state fatte indagini per sapere il nome del negozio che l’aveva venduta. E venduta a chi? A Gherardi o allo stesso Accetti?
Eppure, nonostante tutto, pur in presenza di elementi che non solo in Sicilia avrebbero portato a una condanna per omicidio volontario, hanno infine evitato di emetterla. In mancanza di prove contrarie e pur non credendo alla storia del servizio per la Farnedani e dubitando della veridicità della testimonianza di Gherardi, hanno preso per buono l’orario di partenza, il luogo della partenza e il tragitto per Ostia indicato dall’imputato.
Nessuno però si è accorto che valeva la pena di approfondire un particolare. Quando il 26 dicembre, cioè sei giorni dopo che suo figlio aveva ucciso Garramon, i carabinieri hanno interrogato Aldo Accetti, nel verbale hanno specificato quanto segue:
“ACCETTI Aldo, nato a Tripoli il 24/II/1926, residente A Roma Piazza Santa Emerenziana n.2 Tel. 83948, di fatto dal 15/12/1983 chiesto il trasferimento per Via Curzio Malaparte numero scala “A” interno 8”.
Il numero civico non è stato verbalizzato, ma è certo il 33 perché era la sede legale della cooperativa edilizia Nuova Oasi, della quale il papà di Marco Accetti, come pure si legge nel verbale, era stato il presidente fino al 1980 dopo averla fondata nel ’73.
Numero civico a parte, dove si trova via Curzio Malaparte a Roma? Si trova all’EUR. Vale a dire, nello stesso quartiere dove viveva Josè Garramon. Via Malaparte figura al Torrino a anche al Laurentino, ma comunque fa parte dell’EUR.
Quello che però conta non è il nome del circondario, ma il fatto che l’appartamento dove il signor Aldo voleva trasferire la residenza, perché voleva andarci ad abitare o vi aveva un’abitazione di riserva o comunque l’ufficio, è a solo un paio di chilometri di strade asfaltate dalla casa dei Garramon, in via dell’Aeronautica 99, e a solo un paio di chilometri di strade asfaltate dal negozio di barbiere del signor Luigi Ferrauto in viale America 23. Si tratta del negozio dove Josè era andato a piedi verso le 18 per tagliarsi i capelli e dal quale stando alle testimonianze del Ferrauto e del suo commesso Renato Scafi era uscito attorno alle 18,45.
Ma quello che più impressiona è che tra la via Cristoforo Colombo e via Malaparte ci sono meno di 500 metri di distanza se ci riferiamo alla distanza minima, vale a dire alla confluenza della Colombo con via dell’Oceano Pacifico, e a un chilometro se ci riferiamo invece alla piazza che per far posto al più grande palazzo dello sport di Roma divide in due la Colombo dall’obelisco a Guglielmo Marconi fino al bronzo Novecento di Arnaldo Pomodoro.
E proprio in piazza Marconi, davanti all’obelisco, sbucano sia il viale dell’America del barbiere dove si era recato il piccolo Garramon sia la via dell’Aeronautica dove abitava. Ciò significa che il ragazzino sia per andare dal barbiere che per tornare a casa doveva necessariamente attraversare via Cristoforo Colombo là dove si divide in due per far spazio alla grande piazza.
Come si vede, tra via Malaparte e la casa dei Garramon, tra via Malaparte e il barbiere frequentato da Josè e infine tra via Malaparte e le strisce pedonali di via Colombo attraversate a piedi dal ragazzino, le distanze sono molto ma molto minori dei 15, 38 o 45 chilometri che si devono percorrere per arrivare da piazza S. Emerenziana all’EUR a seconda dei tre possibili itinerari. Josè è uscito dal barbiere alle 18,45. Se fosse salito sul Ford Transit ci sarebbe stato tutto il tempo per arrivare nella pineta attraversata da via di Castelporziano e perdervi la vita dopo circa un’ora. Del resto in quella pineta qualcuno ce lo deve avere portato.
Eppure, non risulta che siano state fatte indagini per appurare se Marco Accetti frequentasse via Malaparte e dintorni, né se qualcuno lo avesse mai visto in quella zona o nei paraggi. Non sono state fatte indagini per sapere se qualcuno avesse visto in via Malaparte e nelle adiacenze, via Cristoforo Colombo e viale America comprese, un Ford Transit e/o qualcuno somigliante all’Accetti figlio. I giudici a pagina 23 della sentenza di condanna hanno ammesso che
“qualche specifico accertamento è stato trascurato”.
Purtroppo però non dicono quali fossero. E’ evidente che anche loro non si sono neppure resi conto del clamoroso avere trascurato l’ipotesi della partenza del Ford Transit direttamente dall’Eur, direttamente da via Colombo/piazza Marconi.
Agli “specifici accertamenti trascurati” c’è da aggiungere un eventuale errore fatto da chi ha fornito ai magistrati la piantina della zona dell’incidente, piantina nella quale manca il breve tratto di strada, una ventina di metri, che dal piazzale del Cinghiale porta direttamente su via Colombo e che dimostra così che Accetti mentiva clamorosamente: per riportarsi sulla Colombo, infatti, bastava fare quei pochi metri, non c’era nessun bisogno di fare dietro front e ripercorre il lungo viale sul quale ha perso la vita Josè.
L’investitore non poteva certo sostenere di non essersi accorto in piazzale del Cinghiale che davanti al suo naso c’erano tanto di semaforo e di luci dei veicoli in continuo transito sulla Colombo, trafficatissima specie a quell’ora.
I giudici hanno dovuto prendere atto anche del fatto che una perizia psichiatrica non ha evidenziato in Marco Accetti tendenze pedofile, ma per produrre e smerciare foto e filmini a contenuto pedofilo o comunque scabroso non c’è nessun bisogno di essere né pedofili né “anormali”.
Resta solo una domanda: perché Marco Accetti gioca col fuoco delle autoaccuse? Perché dopo 30 anni si è auto accusato della scomparsa della Orlandi e della Gregori e ha anche ammesso di essersi accorto di avere investito e ucciso Josè Garramon e di essere fuggito anziché cercare soccorsi?
Lui risponde raccontando che sono stati tutti eventi provocati dalla lotta tra la “fazione vaticana” della quale afferma di avere fatto parte e la fazione opposta. E che s’è risolto a vuotare il sacco e “dire la verità” convinto che l’elezione di un “Papa non curiale” come Francesco avrebbe indotto i suoi antichi sodali e complici a farsi avanti anche loro.
Ma che siano motivazioni che non vale neppure la pena di commentare lo dimostra in particolare il suo ostinato rifiuto di fare i nomi degli asseriti sodali e complici. Lo dimostra anche la frase utilizzata per spiegare la sua omertà: “i magistrati non mi hanno fatto le domande giuste”.
Perché Accetti dunque gioca col fuoco, evitando accuratamente di bruciarsi? Il suo comportamento fa venire in mente la figura di Raskolnikov, il protagonista del romanzo “Delitto e castigo” del grande romanziere russo Fëdor Dostoevskij. Autore di due delitti, roso dai rimorsi e dall’angoscia e spinto dall’amore di una donna, Raskolnikov alla fine tra mille tormenti trova la forza di costituirsi e di accettare la condanna conseguente.
Accetti invece si affaccia sull’orlo dell’abisso, ma poi si ritrae. Somiglia piuttosto a un esibizionista sfrontato che vuole però farla franca. A chi anziché avere la forza di espiare accettando la condanna per le sue colpe preferisce l’effimera fama del furbo che facendo l’occhiolino a chi lo ascolta racconta sì i suoi vecchi delitti, ma dandone versioni addomesticate e da miles gloriosus.
Insomma, per dirla alla romana, il Raskolnikov de nojantri. Meglio passare per mitomane che rischiare di passare per serial killer.