Mario Monti e società civile: crisi, colpe e governo

di Pino Nicotri
Pubblicato il 11 Novembre 2012 - 08:17 OLTRE 6 MESI FA

Venerdì prossimo, 16 novembre, il governo Monti compie un anno. L’entusiasmo con il quale venne accolto alla nascita si è spento. Al punto che nessuno vuole resti in carica dopo le prossime elezioni, che si terranno forse il 7 aprile dell’anno prossimo.
A Mario Monti ogni tanto scappa detto “Se necessario sono disposto a restare”, ma nessuno raccoglie: un modo silenzioso per dire che necessario proprio no, non lo è più.

Anche il presidente della Repubblica, quel Giorgio Napolitano che lo ha voluto insediare forzando un po’ la mano all’ortodossia istituzionale, non si spende più molto per lui. Ormai il premier docente di economia pare un meccanico che riparata l’auto in panne viene ringraziato dai padroni del veicolo in modo che sia ben chiaro che deve mollare il volante, e senza neppure dargli il tempo di rodare le riparazioni.

Monti ha detto – a Bruno Vespa – di “aver sottoposto il Paese a dosi di riforme mai viste in passato”. Sì, ma sono servite a risolvere i problemi per i quali era stato chiamato e di fatto imposto? Ha saputo riparare l’auto in modo che non vada rapidamente in panne di nuovo? Ai posteri – e agli elettori – l’ardua sentenza.

Per ora, dopo un anno di vita, il governo dei tecnici somiglia molto a un insieme di volenterosi dilettanti più o meno allo sbaraglio.

L’uscita dal guado, dalla crisi economica e finanziaria, dalla voragine del debito pubblico, dalla troppa disoccupazione non solo giovanile e dal pericolo di bancarotta nazionale, viene sempre data al condizionale: speranza certa, ma non ancora realizzata, traguardo possibile, quasi certo ma non certo, a portata di mano ma non ancora acchiappato con le mani. Verbi al condizionale o al futuro, con le stesse parole dei primi giorni di governo Monti.

Qual è la grande differenza con i governi non tecnici? A me per ora tutto ciò ricorda le promesse del governo D’Alema quando diede per scontata “l’emersione del lavoro nero” grazie alle sue riforme del lavoro che hanno ottenuto invece l’effetto contrario.

Spero, ovviamente, di sbagliare. A noi ora preme fare invece alcune altre considerazioni.Dal momento che il governo Monti è un  governo di tecnici, tutti estranei ai partiti e con nessun politico di professione, si può legittimamente dire che è una forma di governo della famosa società civile.

Non si capisce quindi il perdurare della convinzione che a salvare l’Italia sarà la sostituzione dei politici di professione con campioni della società civile, fissazione esplosa alla fine del 1985 con la nascita del movimento detto appunto Società Civile. Ormai siamo al punto che Beppe Grillo (stra)parla addirittura di abolizione dei partiti per passare alla “democrazia diretta”.  E anche lui – campione della società civile e certo non politico di professione- si contraddice non poco: prima annuncia di voler procedere a quello che di fatto è un golpe, poi accusa di golpismo il governo che ipotizza un premio di maggioranza al partito o alla coalizione che alle elezioni dovesse superare il 42,5% dei voti.

Ma lasciamo stare Grillo. Il problema è che si continua a far finta che il governo dei tecnici capeggiato da Mario Monti sia stato insediato per risolvere una serie di problemi piovuti dal cielo o colpa del famoso spread o della congiuntura internazionale, colpa magari della globalizzazione o delle bolle speculative made in Usa.

Abbastanza scontato dare la colpa alle burocrazie, compresa quella giudiziaria, e ai sindacati.

Eccetto alcune aree di eccellenza, le prime sono composte in massima parte da personale che prevalentemente tira a campare e non ama certo sudare se non in palestra, motivo per cui ci vogliono mesi o anche anni per una qualunque pratica, sia che si tratti di un processo o delle motivazioni di una sentenza sia che si tratti di una pratica per ottenere il riconoscimento della pensione all’Inps o una TAC presso una ASL.

I secondi, cioè i sindacati, fanno troppa fatica a capire che i tempi sono cambiati, non esistono più né l’Unione Sovietica né il Partito Comunista Italiano e quindi bisogna sforzarsi di capire come contribuire ai cambiamenti nel mondo del lavoro. Certo, senza lasciarsi schiacciare, ma neppure restando fermi a mo’ di soldati giapponesi mentre la Storia, bene o male che sia, invece va avanti.

E’ vero, abbiamo fatto la Resistenza e ci siamo liberati del fascismo, ma la tendenza al corporativismo pare scritta nel nostro DNA nazionale. Forse perché dal fascismo non ci siamo liberati da soli, ma con l’intervento militare decisivo degli angloamericani?

Invece poca attenzione si presta al fatto che quelli che ci schiacciano sono problemi nati in buona parte per responsabilità proprio della nostra tanto decantata società civile.

Se  i giovani non trovano lavoro e se il lavoro quando si trova è quasi sempre precario o in nero, la responsabilità di chi è se non dei nostri imprenditori, che pur essendo membri emeriti della società civile hanno fatto e fanno tuttora un po’ troppo i furbi?
Se non emettere scontrini e fatture fiscali è uno sport nazionale, di chi è la responsabilità se non di quella larga fetta di società civile composta da professionisti, artigiani, negozianti ed esercenti vari?

Se evadere il fisco o non pagare gli comunque il dovuto è diventato una vera e propria piaga nazionale, di chi è le responsabilità se non della società civile recalcitrante da sempre verso i doveri fiscali? Se la sanità pubblica è diventata quello che  è diventata, cioè una bomba ad orologeria piazzata sotto il sedere del bilancio dello Stato, di chi è la responsabilità se non della massa di operatori della sanità, medici, primari, fornitori, ecc., che fanno la cresta o truffano su troppe cose?
Se la fuga dei capitali all’estero è ripresa in dosi massicce e preoccupanti, di chi è la responsabilità se non dei membri della società civile che hanno quattrini da “mettere in salvo” all’estero? Se Comunione e Liberazione è diventata quella macchina di potere che è diventata, alimentata in buona parte dalle spese della Sanità Lombarda, di chi è la responsabilità se non di parte della società civile di marca cattolica?

Se l’industria italiana, a partire dalla Fiat, è meno competitiva di quella estera, di chi è la responsabilità se non degli industriali che troppo si sono adagiati sul protezionismo e sui contributi statali a fondo perduto?

Se le banche sono quasi tutte sull’orlo del baratro, bisognose di fondi e ricapitalizzazioni, di chi è la responsabilità se non dei banchieri e annessi manager e dirigenti più ingordi che capaci? Se si scoprono spesso, ormai ciclicamente,  “cricche”, “logge”, “tangentopoli”, “quartierini”  e “furbetti” vari, di chi è la responsabilità se non dei membri e degli spezzoni di società civile che ne fanno parte e che sono ingordi amanti degli assalti alla diligenza?

Il discorso potrebbe continuare a lungo, passando per gli sprechi di troppe istituzioni, dalle forze armate alle carceri, dagli ospedali ai lavori pubblici di troppi tipi, passando per le varie mafie e criminalità organizzate, e passando per il padronato che col suo cinismo “risparmioso” ha regalato all’Italia il record europeo di vittime sui luoghi di lavoro. Sono infatti tutti bei pezzi di società civile che ormai permeano di sé molto di ciò che fino a ieri era o si credeva fosse sano ed efficiente anche al Nord.
Ma alla fin fine basta una considerazione: cosa è stato e cosa è rimasto l’intero berlusconismo? E’ stato ed è rimasto un tipico movimento della società civile, che in spregio “alla politica politicante” e in laude “del fare” ha seguito in massa un suonatore non di piffero, ma di televisione?

Conclusioni? Queste:

+ la società civile italiana è in larga parte non all’altezza delle sue pretese e delle sue illusioni. La società civile è cioè in realtà meno civile del dovuto. Per rimediare, bisogna puntare moooolto di più sulla scuola, perché ciò significa puntare sulla formazione dei  cittadini del futuro;

+ di questa società civile il ceto politico ne è stato di fatto lo specchio fedele, anzi fedelissimo;

+ bisogna tornare a fare politica, intesa come interesse generale e come somma di interessi particolari capaci comunque di trainare e favorire anche l’interesse generale;

+ per far ciò bisogna però capire e spiegare come è fatto il sistema produttivo italiano. Quali sono le sue classi e componenti sociali. Quali tra queste infine si possono alleare per esprimere una politica nel senso appena detto. Quali partiti politici ne sono l’espressione organizzata e come devono cambiare,  organizzarsi e strutturarsi per poterne essere appunto l’espressione.

+ Smetterla di scopiazzare o tentare di  imitare man mano Kennedy, Blair, Obama, il “modello catalano”, i vari “yes, we can” e le “primarie” solo perché sono made in Usa.

+ Tutto il resto è solo chiacchiera e ulteriore perdita a di tempo. Sempre più nociva e alla lunga anche pericolosa. Pericolosa per l’interesse generale, certo non per una serie di interessi “particulari” sempre più numerosi e avidi.