ROMA – Galvanizzata dal successo del viaggio di Papa Francesco in Corea del Sud, la Segreteria di Stato del Vaticano sta valutando varie opzioni per porre fine alla frattura con la Cina. L’obiettivo di riportare all’ovile la sua Chiesa Cattolica Patriottica è troppo ambizioso, motivo per cui Oltretevere si punta a instaurare con tale Chiesa almeno un dialogo degno di questo nome.
Insomma, in Vaticano stanno pensando a come riuscire a praticare una breccia nella Grande Muraglia… Come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, Oltretevere stanno valutando la possibilità di chiedere se non un aiuto almeno un parere a Oliviero Diliberto, leader dei comunisti italiani ed ex ministro della Giustizia, nonché avvocato e docente, visto che è stato disponibilissimo quando gli è stato chiesto un aiuto perché il Vaticano potesse instaurare migliori rapporti istituzionali con il Vietnam.
Nella Corea del Sud, dove è stato accolto da folle entusiaste, Papa Francesco ha lanciato un appello perché le due Coree, del Nord e del Sud, si riuniscano e vivano in pace. Ma, come si suol dire, l’appetito vien mangiando: visto il successo coreano, perché non provare a bussare all’ex Celeste Impero a nord delle Coree? La posta è infatti enorme, e non è detto che sia impossibile trovare un varco nella Grande Muraglia.
I rapporti tra Cina e Vaticano sono stati ottimi per secoli, la frattura è avvenuta solo negli anni ’50 del secolo scorso. Tant’è che già quando non si sapeva ancora chi sarebbe stato il successore del dimissionario Papa Ratzinger, Blitz ha pubblicato un articolo che raccomandava al futuro pontefice, chiunque fosse stato eletto, di occuparsi con convinzione proprio del recupero dei rapporti con Pechino.
Sarebbe un grave errore restare fermi mentre la Cina è sempre più vicina con l’invasione del mercato non solo italiano ed europeo, con un discreto shopping di aziende e con una notevole presenza di immigrati quanto mai attivi soprattutto nel commercio, oltre che con una politica disinvolta e pragmatica.
L’ex Celeste Impero sta ponendo fine all’egemonia occidentale sul pianeta, egemonia del resto erosa anche da altri Paesi orientali, come l’India e il Giappone, e da altri Paesi in rapido sviluppo come il Brasile, la Turchia e l’Iran. Come fare quindi a dialogare con la Cina in modo da evitare se possibile scontri rovinosi? È una domanda che si pongono non solo in Vaticano, specie da quando negli Usa e nelle cancellerie europee ci si è resi conto che è molto flebile la speranza di spaccare la Cina nelle sue quattro parti storiche, esistenti prima della millenaria unificazione. La Cina non è né l’Iraq né la Libia né la Siria né l’Ucraina, dove ancora oggi l’Occidente punta al classico “divide et impera”. E non è neppure la Polonia da sottoporre alle spallate antigovernative di Papa Wojtyla.
I cinesi inoltre, anche a causa del duro colonialismo che hanno dovuto subire, sono molto suscettibili. Negli anni ’50 Pio XII si è rimangiato quello che aveva concesso nel 1939, vale a dire l’abolizione della proibizione ai cattolici cinesi di partecipare ai riti tradizionali esistenti da millenni e l’eliminazione del giuramento imposto a tutti i missionari cinesi di rispettare e far rispettare la proibizione decisa a Roma. Per giunta, Pio XII dopo avere scomunicato i comunisti minacciò di fare altrettanto con i vescovi cinesi se non avessero obbedito al suo ordine di stare lontani dai riti tradizionali confuciani, in particolare dal culto dei morti considerati più o meno divinità domestiche. L’unico risultato fu la nascita nel 1957 della Chinese Catholic Patriotic Association, vale a dire della Chiesa Cattolica Patriottica Cinese, oggi forte di quasi 200 vescovi.
Data l’enorme importanza dell’argomento, è bene ripetere alcune cose già dette nell’articolo che raccomandava al futuro pontefice di occuparsi della Cina. E’ abbastanza noto che Matteo Ricci, gesuita come Papa Francesco, geografo, astronomo e matematico, riuscì ad arrivare in Cina e a guadagnarsi la stima anche della corte imperiale perché padroneggiava la lingua cinese, ne aveva assorbito la cultura tanto da vivere come un mandarino. Ricci nel primo decennio del 1.600 per compiacere l’imperatore e la sua corte decise di pubblicare una versione modificata e dell’atlante “Mappa completa delle miriadi di Paesi della Terra”. Realizzata con Li Zizhao e pubblicata in migliaia di copie, la Mappa aveva infastidito i cinesi convinti che la Cina – non a caso da loro chiamata Zhongguo, cioè Regno di Mezzo – fosse il centro del mondo e non la periferia dell’ Europa. La nuova versione della Mappa era decisamente più cinocentrica.
Il gesuita Martino Martini, arrivato in Cina nel 1643 sulla scia del dilagare dei portoghesi in Oriente, aiutò l’imperatore Longwu della dinastia Ming, che lo nominò mandarino, a fronteggiare militarmente gli avversari mancesi della dinastia Quing. Esperto di balistica, preparazione della polvere da sparo e della fusione dei cannoni, Martini venne soprannominato Mandarino Polvere di Cannone. Martini riuscì a convincere papa Alessandro VII ad accettare sia pure con riserva che i cinesi convertiti al cristianesimo potessero continuare i loro riti per i morti e per Confucio senza essere scomunicati.
Il gesuita belga Ferdinand Verbiest venne nominato nel 1669 dall’imperatore Kangxi presidente dell’Ufficio delle Matematiche e portò a termine la riforma del calendario cinese iniziata con il gesuita tedesco Adam Schall von Bell. E l’imperatore Kangxi emanò un decreto di libera predicazione del cristianesimo che ricorda molto da vicino l’analogo editto di Milano con il quale Costantino nel 313 aveva sdoganato il cristianesimo dichiarandolo “religio licita”. La penetrazione del cattolicesimo era favorita dalla crisi di rigetto anche da parte delle elite cinesi nei confronti del buddismo, nel cui clero abbondava la corruzione e una eccessiva rilassatezza dei costumi.
I missionari gesuiti erano convinti che per favorire la penetrazione del cristianesimo in Cina si dovesse essere tollerati e rispettosi di culture antiche e radicate come quella cinese e più in generale asiatiche, ed erano anche convinti che le pratiche invise a Roma fossero solo riti civili, non religiosi. Di parere diametralmente opposto i missionari francescani e domenicani. Fu così che nel 1713 Papa Clemente XI pubblicò la bolla “Ex illa die”, con la quale condannava i riti cinesi ed esigeva a tutti i missionari residenti in Cina il giuramento di rispettare la condanna romana.
La bolla “Ex quo singulari” di Benedetto XIV, pubblicata l’11 luglio 1742, proibì addirittura ogni discussione sui riti cinesi e annessa condanna di Clemente XI, costringendo così gli imperatori Yongzheng e Qianlong a porre un freno alla libertà di predicazione del cristianesimo. E la soppressione della Compagnia di Gesù decisa il 21 luglio 1773 da Papa Clemente XIV non fece altro che convincere i cinesi che i gesuiti avessero mire politiche e fossero quindi davvero pericolosi per l’unità della Cina.
A togliere l’obbligo del giuramento e a consentire ai cattolici cinesi la partecipazione ai riti tradizionali è stato Pio XII nel 1939, anno di inizio della seconda guerra mondiale. Ma con la politica delle scomuniche ai comunisti in blocco e ai vescovi cinesi non disposti a obbedire senza fiatare al Vaticano si è ottenuto solo il rigetto dell’autorità del Papa e la nascita nel 1957 della Chinese Catholic Patriotic Association.
Un altro capitolo interessante e molto poco noto è che il cristianesimo, sia pure non cattolico, nei secoli passati si era saldamente radicato anche nelle corti dei vari Gran Khan mongoli, le cui mogli erano infatti spesso cristiane nestoriane. Hulagu, un nipote di Gengis Khan, pur essendo un convinto seguace dello sciamanesimo, aveva la madre, Sorghaghtani Beki, e la moglie preferita nestoriane, così come molti dei suoi più stretti collaboratori. Uno dei suoi generali più importanti, Kitbuqa, era un cristiano. E al seguito di Kublai Khan entrò in Cina una ondata di cristiani nestoriani, provenienti da Najman, oggi in Afganistan.
Ma non allarghiamo troppo il discorso, restiamo alla Cina. Che verso il Vaticano è animata dalle migliori intenzioni. Nell’ultimo periodo del pontificato di Ratzinger lo State Administration for Religious Affairs (SARA) ha infatti chiesto alla Segreteria di Stato di eliminare la minaccia di scomunica dei due nuovi vescovi ordinati a prescindere dalla volontà d’Oltretevere. Il SARA ha definito la minaccia di scomunica “irragionevole e incivile”.
È interessante notare che la richiesta del SARA, cioè in definitiva del governo cinese, era accompagnata dall’invito a tornare “sulla giusta strada del dialogo” e dalla volontà di discutere tutti i problemi in sospeso, compreso quello dell’ordinazione dei vescovi. Come sempre grandi diplomatici, i cinesi hanno fatto notare molto abilmente che “la pratica di ordinare vescovi da parte della Chinese Catholic Patriotic Association è necessaria per diffondere il cattolicesino in Cina” ed è la “manifestazione della libertà di religione”.
A scanso di equivoci, Papa Francesco in Corea ci ha tenuto a chiarire che “la Chiesa cattolica non vuole fare conquiste”, cioè non quelle territoriali. Una precisazione quanto mai opportuna dal momento che il cattolicesimo in altre parti dell’Oriente e del mondo è arrivato proprio al seguito di “conquistadores”, cioè con le invasioni e il colonialismo. Quel colonialismo che ha reso i cinesi allergici e molto contrari a qualunque tentativo di influenza esterna non gradita.
Papa Francesco è un gesuita, proprio come i vari missionari che hanno saputo portare con le buone maniere il cattolicesimo in Cina. Per questo forse è più sensibile al tema e più capace di svolgerlo al meglio.