Piazza Fontana, Pino Nicotri: Le borse delle bombe vendute a Padova, ecco come smascherai Freda e dimostrai che Valpreda non c’entrava

Piazza Fontana, Pino Nicotri: Le borse delle bombe vendute a Padova, ecco come smascherai Freda e dimostrai che Valpreda non c'entrava
Piazza Fontana, Pino Nicotri: Le borse delle bombe vendute a Padova, ecco come smascherai Freda e dimostrai che Valpreda non c’entrava. Nella foto: la copertina della nuova edizione del libro SIlenzio di Stato di Pino Nicotri

In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova.

Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. Il libro è ordinabile online o nelle librerie Feltrinelli con il codice ISBN 9788892364189.

La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo.  

Intanto notiamo che le bombe  erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso.

Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni.

 La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa.  E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. 

A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…

Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista.

Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera.

Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla.    

Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber.

Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”.

Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. 

Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”.

Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore.

Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia.

Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici.  

E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. 

Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. 

Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso.

Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:

“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.

“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”

“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.

“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.

“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”. 

La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così.

Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre.

Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto.

D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi.

Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati.

E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro. 

(Il link per acquistare il mio libro Silenzio di Stato è il seguente:
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