Sono rimasto francamente sbalordito a vedere che il presidente del Senato della Repubblica Italiana, Pietro Grasso, è davvero andato in tv a “Piazza Pulita” per sottoporsi davanti al giornalista Corrado Formigli – rimasto troppo disinvoltamente in maniche di camicia – a un confronto con il giornalista Marco Travaglio, che nei giorni precedenti gli aveva rivolto delle accuse nel corso di una puntata di Servizio Pubblico.
Adesso ci manca solo che a giustificari in qualche salottino o processino televisivo ci vada anche il Presidente della Repubblica e – perché no? – il Papa.
Si dà il caso che in Italia il Presidente del Senato sia la seconda carica dello Stato, subito dopo il presidente della Repubblica, che sostituisce per esempio quando il Capo dello Stato va all’estero o è altrimenti impedito. Gravissimo errore di forma e di sostanza che la seconda carica dello Stato si abbassi ad andare in tv per “difendersi” come un qualunque Dell’Utri o altri personaggini del teatro della politica e della cronaca.
Se Grasso mi ha sbalordito, Travaglio mi ha scandalizzato. Si è infatti permesso di non presentarsi al confronto. Ha cioè pubblicamente sbeffeggiato la seconda carica dello Stato come se al cospetto di Sua Signoria Travaglio fosse un Pinco Pallo qualunque. Si direbbe che una sorta di delirio di onnipotenza abbia fatto perdere a questo bravissimo giornalista di grande successo il senso della misura e quello del ridicolo, oltre alla buona educazione, che pure ci tiene a esibire con i suoi modi in apparenza misurati e distaccati.
Mi ero astenuto dal dire la mia quando Travaglio è stato messo in evidente difficoltà da Silvio Berlusconi nella puntata di Servizio Pubblico, nel corso della quale l’aborritissimo Cavaliere – trattato con insolenza da un Michele Santoro ormai anche lui fuori misura – ha reso pubblicamente noto che Travaglio ha collezionato ben dieci condanne per diffamazione.
Con l’espressione del viso volutamente più distaccata del solito, ma in realtà evidentemente spaesato, quella volta Travaglio ha evitato di entrare nel merito limitandosi a sorridere e dire: “Ma mica si tratta di condanne per reati penali”. Vero.
E allora? Civile o penale, la condanna non denota una eccessiva fiducia nel lanciare accuse? Sarebbe contento e si limiterebbe a un sorriso di sufficienza Marco Travaglio se qualcuno lo diffamasse a ripetizione, tanto “non si tratta di reati penali”? Forse che la condanna “civile” è un merito, un elogio anziché una condanna? Se Travaglio fosse un medico o un architetto potremmo dire che per ben dieci volte ha sbagliato gravemente diagnosi o progetto di costruzioni, con morte o invalidità del paziente e crollo della costruzione. Reati “civili”, certo, non penali. Ma chi si fiderebbe più di un tale medico o architetto? Credo neppure Travaglio.
Venendo alla sostanza delle accuse lanciate contro Grasso da Travaglio a Servizio Pubblico, sono invece arrossito: per la vergogna. La risposta, oltretutto evidentemente ironica, data da Grasso ai giornalisti della trasmissione radiofonica La Zanzara, è stata sfrontatamente forzata. Grasso a La Zanzara s’è limitato a far notare una cosa vera, e cioè che, durante il governo Berlusconi, all’Alto Commissario per la Lotta alla Mafia è stato dato un potere che prima non aveva, il potere cioè di procedere a confisca di beni acquisiti con soldi di origine criminale o con prepotenze di vario tipo.
Che tale atto del governo Berlusconi sia un merito e non un demerito è evidente. E quando Davìd Parenzo, uno dei due conduttori de La Zanzara, ha detto polemicamente a Grasso “allora questo è un merito di Berlusconi” Grasso si è limitato a rispondere con un ovvio “beh, sotto questo aspetto sì”.
Dov’è lo scandalo? Dov’è la “medaglia d’oro” che a dire di Travaglio il neo presidente del Senato vorrebbe dare a Berlusconi? A voler fare dell’ironia pesante ci sarebbe da dire che forse Travaglio s’è confuso con la medaglia di platino che Davìd Parenzo darebbe a Berlusconi per essere andato in visita in Israele come capo del governo italiano ed avere lodato in modo sperticato il governo israeliano. Lodato fino a dichiarare che la mattanza consumata con l’invasione di Gaza “è stata una reazione moderata”, oltre che ovviamente giusta.
Riguardo poi l’accusa di lesa maestà nei confronti del magistrato Gian Carlo Caselli per essergli stato preferito come Alto Commissario siamo un po’ oltre, cadiamo nella disinformazione e alla conseguente deformazione della realtà, come Grasso ha dimostrato.
Grasso ha battuto in curva Caselli: e allora? Il governo, di Berlusconi, e il Consiglio Superiore della Magistratura, certo non di Berlusconi, hanno fatto in modo che Caselli quella nomina non la potesse avere. Che c’entra Grasso? Qual è il problema? Dov’è lo scandalo? Forse che Caselli è anche lui “santo subito!”. Forse Caselli è una creatura superiore o forse come magistrato ha dimostrato doti eccelse a fronte di doti pessime di Grasso? Imbarazzante, molto imbarazzante. Molto imbarazzante anche l’ironia fuori luogo, da personaggio ormai di grande successo e quindi legibus solutus, nei confronti del giornalista Corrado Formigli: “Gli ho regalato un quarto d’ora di celebrità”.
E’ da troppo tempo, già dal caso “7 aprile”, nel lontano 1979, prima e poi da Mani Pulite/Tangentopoli, che il giornalismo giudiziario, che dovrebbe occuparsi di indagini, processi e sentenze, cioè di giustizia, anche facendo le pulci all’operato della magistratura, s’è trasformato in giornalismo giustizialista. Il cronista giudiziario troppo spesso è diventato megafono dei pubblici ministeri e portavoce delle Procure, cioè dell’accusa, troppo spesso si sdraia sulle tesi dei magistrati dell’accusa evitando accuratamente di vagliarle, sottoporle a verifica e a critica. Evitando cioè di contraddirle. Non a caso sono in cartellone da ormai ben 30 anni le bufale a ripetizione del caso Emanuela Orlandi. Noi giornalisti somigliamo un po’ troppo a quei volenterosi lanciatori di pietre sempre pronti a lapidare a comando i condannati a morte in Paesi dove non vige né la democrazia né la certezza del diritto. Perché poi ci meravigliamo se godiamo di scarsa considerazione? C’era bisogno di Beppe Grillo per capirlo?
Detto questo, dobbiamo ricordare al signor presidente del Senato, una vita da magistrato, il proverbio, “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Da Pietro Calogero ad Antonio Di Pietro, passando per molti magistrati da Palermo a Torino, vi ha fatto comodo coltivare con il giornalismo giudiziario rapporti improntati solo ai reciproci applausi? Vi ha fatto comodo poterli utilizzare come megafono e fiancheggiatori per tenere spesso in galera anche innocenti? Gli atteggiamenti travaglini ne sono la conseguenza. Vorrei ricordare a Grasso due casi siciliani sui quali si glissa anziché chiedere scusa sia da parte dei magistrati che da parte dei giornalisti che vi hanno intinto per anni la penna a senso unico. Due casi decisamente scomodi, anzi decisamente vergognosi. Riguardo i quali stranamente gli eroici Travaglio e i Santoro, giornalisti anche “antimafia”, si guardano bene di impicciarsi.
Primo caso. Ci sono voluti ben 20 anni perché finisse come doveva finire, cioè nel ridicolo, il balletto tra “uomini dell’Antistato e uomini dello Stato” raccontato un’infinità di volte da magistrati immaginifici e giornalisti “antimafia” riguardo i 20 chili di esplosivo trovati il 21 giugno ’89 sulla scogliera nei pressi della villa sul lungomare dell’Addaura del magistrato Giovanni Falcone. Secondo l’edificante vulgata, mentre uomini della mafia e dei servizi segreti “deviati”, cioè “dell’Antistato”, piazzavano la bomba sulla scogliera come monito per Falcone, su un motoscafo a poca distanza c’erano “uomini dello Stato”, la cui presenza in mare finì col dissuadere gli attentatori: una sorta di lotta tra il Bene e il Male in versione sicula: “uomini dello Stato contro uomini dell’Antistato”. Dopo 20 anni una banale analisi del DNA ha colato a picco la vulgata dimostrando che la presenza di uomini dei servizi “deviati” era solo una bufala, la solita invenzione di qualche “supertestimone”. Ma nessuno s’è scusato: né i magistrati responsabili delle condanne né i giornali e i giornalisti responsabili di vent’anni di fantasticherie rifilate ai lettori.
Secondo caso. Solo nell’ottobre del 2011 sono stati scarcerati i sei innocenti condannati all’ergastolo nel 1993 per l’uccisione del magistrato Paolo Borsellino. Le “rivelazioni” di chi ne aveva provocato le condanne autoaccusandosi dell’attentato, Vincenzo Scarantino, erano state “favorite” dall’ex capo della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera che aveva ”manovrato come un orsacchiotto con le batterie” il pentito, come ha raccontato lo stesso Scarantino, anche lui scarcerato dopo una condanna a 18 anni per la falsa autoaccusa. Nessun giornale s’è scusato per avere concorso alla condanna dei sei innocenti avvalorando qualunque affermazione dell’accusa. La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, ma in troppi casi le buone intenzioni “antimafia” e perbeniste hanno lastricato la strada non per l’inferno proprio, ma per quello di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla.
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