ROMA – Lo scandalo delle infiltrazioni criminali nella politica di Roma riporta alla attualità le parole ”Capitale corrotta, nazione infetta”.
Coniò la frase Manlio Cancogni nell’articolo su “L’Espresso” dell’11 dicembre 1955, diventato famoso anche per il titolo molto sintetico ed efficace.
Era la prima inchiesta del dopoguerra che denunciava gli illeciti negli appalti immobiliari di Roma, compresa una società immobiliare del Vaticano. Lo scandalo fu grande e anticipò di molti anni quelli più recenti.
Ora ci risiamo, ma su scala ben peggiore rispetto il 1955. E abbiamo perso il conto delle retate scagliate in anni recenti contro quella che ormai si chiama con grande disinvoltura “Roma mafiosa”.
Ogni volta pare la ripetizione del’Operazione Colosseo, scatenata dal sostituto procuratore Otello Lupacchini nell’aprile 1993 – con 69 mandati di cattura e pesanti accuse contro altre 36 persone – contro quella che da troppo tempo ci si accanisce a definire la Banda della Magliana.
Benché in Cassazione ridotta a ben poca cosa e privata della qualifica di “organizzazione di stampo mafioso”, la banda è diventata ormai una sorta di mitologica araba fenice, che sempre risorge dalle proprie ceneri, o – se si preferisce – prezzemolo e peperoncino per condire e rendere almeno un po’ piccante ogni minestra.
Ad azionare la sirena dell’immortale banda della Magliana è soprattutto Repubblica, che fa scendere in campo con un suggestivo articolo, uno svelto affresco rievocativo intitolato “La nuova Cupola”, Giancarlo De Cataldo, con tutta la sua esperienza di magistrato e la fama di scrittore di successo sempre sul tema banda della Magliana e criminalità romana.
Ci va invece molto più cauto il Messaggero, con un più prudente articolo di Valentina Errante e Cristiana Mangani intitolato “Nel mondo di mezzo tutto è possibile”, dove la mafia vera e propria viene esclusa.
“Il mondo di mezzo” è il nome della nuova operazione della magistratura contro la criminalità romana. Ecco infatti come il gip Flavia Costantini definisce questa inedita Mafia Capitale :
“Un’organizzazione criminale tanto pericolosa quanto poliedrica che – secondo le parole di uno dei suoi esponenti più autorevoli e pericolosi, quello stesso Carminati che ha continuato a comandare sulla città – opera soprattutto in “un mondo di mezzo”, un luogo dove per effetto della potenza e dell’autorevolezza di Mafia Capitale, si realizzano sinergie criminali e si compongono equilibri illeciti tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il mondo di sotto, composto da batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano illecitamente con l’uso delle armi”.
Per parte sua il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone ha illustrato così la nuova retata:
“La mafia a Roma c’è ed è autoctona. Una “mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari”. Una mafia che, per quanto capitale, “non ha una struttura precisa, ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro”.
Qualcosa però non quadra. Infatti, nonostante i giri di parole è chiaro che neppure questa volta è andata in porto la vecchia idea della buonanima di Nicolino Selis, pluricondannato anche per omicidi vari e morto ucciso dai suoi asseriti sodali, di imitare a Roma a partire dal 1979 la Nuova Camorra Organizzata sul modello imposto a Napoli da “O Professore” Raffaele Cutolo a suon di omicidi.
Nel giro di due o tre anni il tentativo di mettere in piedi quel che si usa chiamare Banda della Magliana era già naufragato perché tutti volevano eliminare tutti e finirono con l’ammazzarsi in troppi.
Il tentativo di Selis di fondare una banda centrale, egemone, cioè la Banda della Magliana, naufragò anche perché non seppe darsi “una struttura precisa”, come riconobbe la stessa Cassazione quando ridusse di molto il castello accusatorio di Lupacchini.
E come riconosce oggi il procuratore Pignatore fin dalle prime battute del nuovo colpo di maglio alla malavita romana: infatti, se non c’è “una struttura precisa” parlare di Cupola è improprio.
Una licenza letteraria, che peraltro allo scrittore De Cataldo è doveroso concedere, ma non a un procuratore della Repubblica.
Che la malavita, il malaffare e la corruzione esistano a Roma non ci piove, come del resto anche a New York o a Washington o a Chicago stando a film, letteratura e processi più o meno celebri.
Ma questa ansia di voler vedere la mafia dappertutto, come ormai vincente e non più debellabile a Roma e in tutta Italia, con Milano gemellata a Roma nel “mondo di mezzo” mafioso e criminale, quando invece New York continua a essere la Grande Mela, Washington la sede del governo e della Casa Bianca e Chicago una bella città con enormi spazi versi Usa, è un’ansia autolesionista, masochista.
Un boomerang. Non c’è bisogno di ricordare, sarebbe improprio e ingeneroso, “gli anti mafia di professione”, come Leonardo Sciascia definì i troppi che si riempiono la bocca di mafia di fatto a soli fini auto celebrativi e pubblicitari.
Però basta e avanza rendersi conto che se continuiamo a dipingere Roma, Milano e l’Italia tutta come un cadavere corrotto, dove banchettano e ingrassano i vermi della putrefazione, andrà a picco non solo l’ottimismo e la “voglia di fare”, soprattutto dei giovani, ottimismo e voglia di fare necessari per far ripartire il Paese, ma andranno a picco anche gli investimenti esteri in Italia e quindi la nostra economia.
Da quale Paese civile e sviluppato verrà mai qualcuno a investire in un’Italia mafiosa dominata tutta dalla Nuova Cupola di turno?
Anzi, a investire in Mafia Italia sarà soprattutto o soltanto la criminalità dei molti Paesi che già ne vantano di bene organizzate, dalla Cina al Sud America.
E l’Expò rischia di diventare la vetrina di una mummia anziché del BelPaese Italia che si rimette in piedi e partecipa anche al divenire del mondo, compresi i giganteschi piani di sviluppo che stanno fiorendo non solo in Cina, Russia e Asia Centrale.
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