Roma criminale. Antonio Mancini: mito Banda della Magliana, fantasie da pentito

Roma criminale. Antonio Mancini: mito Banda della Magliana, fantasie da pentito
Massimo Carminati. Secondo Antonio Mancini, i boss della Banda della Magliana lo adoravano

ROMA – Ci risiamo. Antonio Mancini detto l’Accattone, condannato a 35 anni di galera per 5 omicidi, ci riprova. Questa volta non con Enrico “Renatino” De Pedis, ma, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano, con Massimo Carminati tornato alla ribalta, e in carcere, nell’ambito della clamorosa inchiesta Mafia Capitale .

 

Vediamo subito una sintesi di quel che ha detto Antonio Mancini a Alessandro Ferrucci del Fatto. Parla di Massimo Carminati e ricorda:

“Prima di vederlo, ne conoscevo la fama, era tenuto in considerazione da tutti, stimato, mi raccontavano di un suo omicidio a un tabaccaio su ordine di Giuseppucci. Poi un’altra volta De Pedis mi disse che era stato sempre Carminati a far parte del commando che ha ammazzato Mino Pecorelli” [giornalista ucciso nel 1979].

Si intuiva la stoffa del leader?

“Inizialmente no, per me era un ragazzo d’azione. Ma è stato bravo a riempire il vuoto lasciato da Renatino De Pedis dopo la sua morte”.

Lei era amico di De Pedis…

“Eravamo come fratelli, passavamo quasi tutte le domeniche insieme, dalla colazione in poi, appuntamento fisso alla pasticceria Andreotti”.

Secondo lei c’è qualcuno sopra Carminati?

“C’è sempre qualcuno dei ripuliti a comandare, a stare sopra, senza i ripuliti non andremmo da nessuna parte, fermi alle rapine. Anche per questo nella Banda c’è stata la frattura tra noi della Magliana e quelli di Testaccio”. […] “Ho speso tutto. De Pedis invece si è comprato locali, ristoranti, discoteche, era padrone di Campo dei Fiori. E secondo lei, oggi, quei soldi chi se li magna?
I prestanome e la moglie. Io me li ma-gna-vo!”.

La criminalità a Roma è arrivata con la Banda della Magliana?

“Ma no. La gente moriva anche prima, non come quando ci siamo stati noi, ma certe situazioni c’erano già, gli Abbruciati, Diotallevi avevano già colpito”.

Diotallevi è l’altro big di oggi.

“Uno dei più grossi”.

Perché Carminati è l’erede di De Pedis?

“Di tutti gli altri che c’erano attorno a Renato, era l’unico ad avere lo spessore giusto, appellava De Pedis come “presidente”, ci sono le intercettazioni a raccontarlo, ed era l’unico a poter riacchiappare i fili delle varie componenti. Ha presente quante e quali prove avevano su di lui rispetto all’omicidio Pecorelli? Chiunque altro, me compreso, sarebbe stato condannato”.

Da De Pedis a Carminati, e oltre Carminati?

“Ci sono altri nomi, altri ex della Banda, basta voler vedere come stanno i fatti…[…] Sa quanto guadagnava De Pedis? 180 milioni al giorno con le slot machine. Al giorno. Figurati adesso. E le dico una cosa: Carminati esce, prima di quanto potete immaginare, altrimenti dovrebbero incarcerare mezzo mondo”.

A lei la politica l’ha mai aiutata?

“Ero incarcerato a Pianosa, vita terribile. Così dico ai miei: portatemi via, voglio cambiare galera. Dopo pochi giorni, mi chiama il capo-reparto, mi fa sedere e mi domanda: ‘Ma tu al ministero chi cazzo hai? Mi stanno a fa due coglioni così per farti mandare via’. Ero diretto a Busto Arsizio, in confronto una reggia”.

E chi aveva al ministero?

“Arrivavamo ai piano più alti, ai vertici assoluti, gente mai stata condannata nonostante le dichiarazioni mie e di Fabiola Moretti” [ex compagna di Abbruciati, amica di De Pedis e vicina a Mancini].

De Pedis cosa diceva di Carminati?

“Innamorato, si fidava in tutto. Ma non solo Renato, anche gli altri boss lo adoravano nonostante fosse un ragazzetto”.

Ernesto Diotallevi?

“Lo conosco dagli Anni 70, era rapinatore insieme ad Abbruciati”.

Mokbel?

“Mi faceva da guardaspalle insieme ad Antonietto D’Inzillo, gli davo dieci milioni di lire a settimana”.

I Casamonica?

“Negli Anni 80 non erano niente, l’unico un po’ conosciuto era Guerino”.

Nel vostro gruppo, quanto era importante Carminati?
Per i testaccini era l’unico ad avere le chiavi per entrare dentro l’armeria del ministero della Sanità. Era il garante. Anche i boss dovevano passare da lui, per noi della Magliana quel ruolo era ricoperto da Sicilia”.

Carminati ha detto: ‘Quelli della banda erano dei pezzenti…

“Quei pezzenti gli hanno permesso di diventare quello che è, gli hanno salvato il culo”.

In giro c’è anche Nicoletti, considerato il cassiere della Magliana.

“Non il mio, degli altri sì, compreso De Pedis”.

Nicoletti è ancora potente?

“Perché, lo hanno intaccato? Gli puoi anche sequestrare 200 milioni di euro, sono niente. Non sono stato chiaro: questi non spariranno mai, e vedrete se ho ragione o meno”.

Analizziamo le parole di Antonio Mancini. Evidentemente non sono bastate le frottole raccontate negli anni ’90 per addossare l’uccisione del giornalista romano Mino Pecorelli, avvenuta il 16 marzo 1979, all’asserito “boss della banda della Magliana” De Pedis, ucciso il 2 febbraio ’90 e quindi non più in grado di difendersi.

Anche se a onor del vero dalla “rivelazione” dell’Accattone De Pedis non avrebbe avuto alcun bisogno di difendersi: nel marzo del ’79 De Pedis era in carcere, quindi non può essergli stata “consegnata la pistola con cui era stato ucciso Pecorelli, come pure è stato sostenuto in uno degli innumerevoli cambiamenti di versione nelle “rivelazioni” sul delitto Pecorelli. Tant’è che per avere fatto “rivelazioni” simili a quelle di Mancini è stato condannato per calunnia un altro troppo zelante “pentito”, quel Vittorio Carnevale noto anche come Vittorio Carnovale perché per ingannare il casello giudiziario aveva cambiato in “o” la “e” del suo cognome nella carta di identità. E non sono bastate neppure le frottole raccontate sullo stesso De Pedis “che guidava l’auto con la quale venne rapita Emanuela Orlandi”.

Su Massimo Carminati e la Banda della Magliana comunque l’Accattone Mancini può parlare con una indiscussa autorevolezza perché lui come membro della Banda della Magliana è stato in effetti condannato con sentenza definitiva. Il verdetto è stato emesso il 6 ottobre 2000 dalla 2a Corte d’Assise d’Appello di Roma, alla quale la Cassazione aveva rimesso gli atti perché fosse rifatto il processo a 19 dei 29 condannati in
secondo grado che avevano presentato ricorso alla suprema corte.

De Pedis è la fissazione di Mancini da quando negli anni ’90 il potente uomo politico Giulio Andreotti, boss della Democrazia Cristiana più volte capo del Governo e ancora più volte ministro, fini sotto processo per il delitto Pecorelli. Il pupillo a Roma di Andreotti era l’ex magistrato Claudio Vitalone fatto eleggere senatore da Andreotti. Claudio Vitalone aveva un fratello, Vilfredo, che di professione era avvocato e che tra i suoi assistiti aveva anche De Pedis. Mancini e qualcun altro ebbe la bella pensata che per uscire di galera basta “pentirsi” colpendo Andreotti, e l’unico modo di farlo era accusare De Pedis di un qualche delitto chiestogli tramite il suo avvocato Vilfredo Vitalone dal tandem Giulio Anderotti-Claudio Vitalone, come dimostrano fatti e sentenze e come abbiamo già documentato. Quando Claudio Viatalone in alcune interviste accusò Mancini di essere un finto pentito attirato da “cinque milioni al mese, più casa e bollete pagate” promessigli da un altro magistrato, l’Accattone lo querelò. Ma perse la causa. Con una sentenza che lo inchioda al suo avere straparlato per quei “cinque milioni al mese, più casa e bollete pagate”.

Mancini ama presentarsi come assassino che ha accoppato ben più delle 5 persone per le quali è stato condannato, come si legge in quest’altra sua intervista sempre a Il Fatto Quotidiano.
Come che sia, ecco un paio di altre frottole, assodate come tali:
1) ammesso nel 2002 a scontare il resto della condanna ai domiciliari, cioè dopo 21 anni ininterrotti di carcere, senza contare la detenzione precedente l’arresto dell’81, nel 2006 Mancini in una suggestiva diretta televisiva ospite di “Chi l’ha visto?” ha gridato di riconoscere nella voce di “Mario”, il misterioso telefonista del cosiddetto rapimento di Emanuela Orlandi. Strappandosi la cuffia con la quele gli era stata fatta ascoltare la registrazione della telefonata di “Mario”, Mancini aveva “rivelato” che si trattava del “killer preferito di Enrico De Pedis”. Peccato che il nome da lui indicato s’è rivelato un’altra patacca;
2) nel libro “Con il sangue agli occhi: un boss della banda della Magliana si racconta” si legge come avvertenza che De Pedis è stato sì assolto da ogni accusa in tutti i processi, ma solo perché alla fine ad annullare le sue condanne in Cassazione era il magistrato Corrado Carnevale, accusato di acquiescenza con la criminalità e infine assolto e riammesso in magistratura. Peccato però che Carnevale NON s’è mai occupato di processi e sentenze riguardanti “Renatino”.
(Rizzoli, 2007).

Strano che nell’intervista a Il Fatto quotidiano Mancini venga presentato come “un boss della banda della Magliana”. Infatti a escludere questa sua “bossaggine” c’è la realtà dei fatti verificabile calendario alla mano e c’è quanto ha dichiarato su di lui Fabiola Moretti, conosciuta in carcere e diventata la madre di sua figlia. Cominciamo dalle parole della donna, che all’udienza del 1° aprile 1998 avanti la Corte di Assise di Perugia per il delitto Pecorelli alla domanda se Mancini fosse stato un capo della “Banda della Magliana”, come lui stesso sosteneva: rispondeva con le seguenti parole:

«Capo de che? Mancini Antonio [parla] per sentito dire, perché si è fatto sempre tanti anni di galera, quindi quello che poteva dire glielo aveva detto Pasquale o glielo aveva detto Giovanni, quando s’erano incontrati da una cella a un’altra».

Come se non bastasse, la signora Moretti l’8 aprile 1994 ha avuto un colloquio investigativo con due funzionari della DIA. Parlando di Mancini a un certo punto sbotta:

«… Ma che po’ di’ sto c… de Mancini? … che è stato sempre carcerato… quello che j’hanno raccontato i morti? Bisognerebbe falli resuscità pè vede se è vero».

Per poi aggiungere come se avesse l’Accattone davanti:

«… tu nun sai gnente! Tu te stai ad aggiustà i prosciutti tua! Tu nun sai gnente! Tu stai a pia’ in giro a me, a ‘stì pôri disgraziati [ndr: vale a dire, i due funzionari della DIA a colloquio con lei] e a te stesso … perché uno che dice: “Me l’ha detto De Pedis” – che è morto … ma chi o risuscita ‘sto De Pedis …».

Veniamo ora alla realtà calendario alla mano. Carminati è nato nel 1958, aveva perciò solo 16 anni quando il 30 maggio 1974 De Pedis viene arrestato per uscire nel dicembre ’79 ed essere riarrestato il 26 novembre ’84 per uscire  infine solo nel gennaio ’88. Ma un mese prima di lui finisce o meglio torna in galera Antonio Mancini, riarrestato – dopo appena 5 mesi di libertà – il 16 marzo dello stesso anno perché omicida colto in flagrante in via di Donna Olimpia (a Roma). Dopodiché Mancini resta in galera per 21 anni filati. Come ha fatto a essere a conoscenza di tutti gli “accordi” tra De Pedis, Carminati&C “rivelati” nella intervista a Il Fatto? Mistero. Nella migliore delle ipotesi ha ragione Fabiola Moretti: tuttalpiù lo spaccone “boss” Accattone può avere raccontato cose orecchiate in galera, posto che non si sia inventato tutto di sana pianta come in effetti si legge su vari argomenti in sentenze giudiziarie.

I soldi a palate, “180 milioni al giorno” intascati da De Pedis con le sole slot machine, sono stati nascosti o sperperati dalla moglie? Ma dove, quando e come, se la moglie, Carla, ha lavorato per ben 40 anni come dipendente soprattutto in un’azienda regionale e nessuno è mai stato in grado di “rivelare” neppure un pettegolezzo di vita da nababba nonostante sia sotto le attenzioni dei magistrati fin dall’uccisone del marito nel 1990?.

Ma procediamo. E’ assodato che il sodalizio criminale chiamato banda della Magliana è nato solo grazie al riscatto miliardario (in lire) lucrato con il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, avvenuto nel ’77 e ucciso nonostante il pagamento del riscatto. L’idea di centralizzare la malavita romana come aveva fatto con quella napoletana “‘O Professore” Raffaele Cutolo frullava in testa al detenuto Nicolino Selis fin da 1975, ma solo con il bottino di quel riscatto i malavitosi possono cominciare a tentare di imitare il monopolio di Cutolo. Anzi, per iniziare a tentare l’impresa s’è dovuto aspettare che uscissero di galera alcuni “pezzi grossi” della mala romana. Arriviamo così al 1980. Con Mancini nel frattempo in carcere fino all’ottobre di quello stesso anno e tornato in galera dopo appena 5 mesi, nel marzo ’81, per restarci senza interruzione per 21 anni e andare poi agli arresti domiciliari. E’ quindi impossibile che possa essere stato un boss della cosiddetta banda della Magliana, che peraltro si è auto distrutta nel giro di 2-3 anni grazie agli ammazzamenti tra i vari capi, capetti e aspiranti tali. Dopodiché la criminalità romana è tornata ad essere quello che è sempre stata ed è ancora oggi: pascolo per bande e sodalizi criminali di vario tipo, ognuno geloso dei propri affari e del proprio delinquere.

Insomma, “Roma città aperta”, come recita un bel film del dopoguerra su ben altri argomenti. E come ha spiegato in un’intervista alla giornalista Angela Camuso il magistrato Lucia Lotti, che di quella criminalità a suo tempo si è occupata e che in soldoni ha spiegato che Roma è una piazza troppo importante per poter permettere la realizzazione di un monopolio del crimine, a Roma ci devono poter lavorare un po’ tutti, dalla mafia alla camorra fino ai sodalizi criminali locali.
L’unico mistero è come possano giornali e televisioni continuare a dar retta a un tipo come Mancini.

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