L’altro ieri sera, guardando la seconda puntata del festival di Sanremo, m’è venuto all’improvviso in mente un paragone con il Parlamento. Paragone riemerso ieri sera. Il festival dovrebbe essere una esibizione di canzoni, come è stato per decenni, invece si è man mano trasformato sempre di più in un pulpito dal quale lanciare “messaggi”, “insegnamenti”, “provocazioni”, “denunce”… Pipponi insopportabili, a volte grotteschi.
Pipponi come quello smisuratamente lungo di Lorena Cesarini… Farei meglio a lasciar stare, a stare zitto, a non parlarne. Ma non si può tacere dello sguardo adorante e puntuto di Amadeus mentre la signora snocciolava banalità scambiando qualche commento scemo e innocuo su un cosiddetto social come fossero proclami littori per la “difesa della razza” del 1938.
Festival di Sanremo: il monologo di Lorena Cesarini
Io mi sono accorto che Cesarini è un po’ scura di pelle solo perché lei insisteva a lagnarsene. E comunque meno scura di tante e tanti con la tintarella anche d’inverno grazie alle apposite lampade, vedi per esempio Giggino di Maio, ministro degli Esteri ed ex ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico. Che come politico e pure ministro non mi convince così come non mi convince come attrice Lorena Cesarini. Alla quale comunque faccio i miei migliori auguri di imparare bene – almeno lei – il mestiere e diventare una brava attrice con il conseguente successo.
Sanremo: il pippone di Saviano
Pipponi come il monologo smisuratamente lungo di Roberto Saviano, suo malgrado cantore della camorra scambiato per eroico lottatore impegnato contro la camorra e affini. Terminato il monologo, su argomenti che con un festival della canzone ci azzeccano meno dei classici cavoli a merenda, tanto da risultare alquanto offensivo parlare di quegli argomenti in sede festaiolo canterina, si scopre che l’essersi dilungato a parlare del massacro dei magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è uno spot pubblicitario pro domo propria. Pubblicità per un nuovo serial dello stesso Saviano, retribuito adeguatamente, che verrà trasmesso dalla stessa Rai che sta trasmettendo il festival di Sanremo.
Uno spettacolo basato sulla retorica
Tutti politici, filosofi, moralizzatori, visionari, rivoluzionari, predicatori…. Todos caballeros. In un tripudio di luci, lustrini, trucchi (devo dire make up?), tatuaggi d’ordinanza e a gogò, abiti e travestimenti esagerati ma ben griffati. Con robusto contorno di laudi e auto incensamenti, commozioni e lacrimucce esibite in modo sfacciato, quindi probabilmente più un tanto al chilo che autentiche e sincere.
Uno spettacolo basato sul consumismo della retorica. Oltre che sulle chiacchiere. Comprese quelle dei pipponi moralizzatori e compresi non pochi testi delle canzoni. Tanto “sofisticati”, i testi, e “sofisticate”, le musiche, da risultare non di rado scombiccherati/e. Anche perché le vocine sospirose, libertarie, languide, vogliose e iper intimistiche di chi quei testi li canta impediscono di capirne le parole. Per capire, molte canzoni bisogna ascoltarle leggendone il testo su telefonino o iPad. Scomodo, ma efficace. Efficace. ma scomodo.
Come che sia, pubblico in delirio e standing ovation “spontanee” a comando.
Guardando il festival non si percepisce neppure da lontano che in Italia c’è anche povertà. Povertà che per giunta dicono sia in crescita. Eppure a suo tempo con l’approvazione del reddito di cittadinanza, messo sul tappeto dal Movimento 5 Stelle, i vari Luigi Di Maio e affini sbracciandosi dal balcone di Palazzo Chigi e nelle piazze avevano gorgheggiato che “è stata abolita la povertà!”. Al festival di Sanremo si conciona pubblicitariamente di mafia, crimine organizzato, delitti connessi, massacri di magistrati e annesse scorte, ma gli ultimi restano ultimi. E come sempre ignorati.
Come che sia, pubblico in delirio e standing ovation “spontanee” a comando.
Il Festival paradigma del Parlamento
Il parlamento dovrebbe occuparsi costruttivamente di politica e di migliorare la società italiana, compresi i rapporti del BelPaese col resto del mondo. Argomenti sui quali da tempo governi e parlamenti lasciano a desiderare, e a volte latitano del tutto. I recentissimi giorni dell’elezione del presidente della Repubblica hanno reso chiaro a cosa e come s’è ridotto il nostro parlamento. Un festival dell’improvvisazione. Un festival del non sapere cosa siano la politica a favore degli interessi degli italiani e il distinguerla dagli interessi personali o di partito. Partito? Beh, meglio sarebbe dire gruppi. Più che altro gruppi di potere.
Un festival parlamentare del grottesco, con candidature per il Quirinale scelte come se si trattasse di scegliere i “super ospiti” di Sanremo. Grottesco reso platealmente evidente dalla marea di applausi – 55, a quanto ho letto – con il quale i parlamentari hanno accolto il discorso del riconfermato presidente Sergio Mattarella. I parlamentari evidentemente non si sono accorti che il discorso di Mattarella era una critica a tutto tondo al loro operato, all’operato dei governi recenti e meno recenti, con annesso corpo parlamentare. Un critica puntuale – somigliante a un atto d’accusa – a tutto ciò che non hanno fatto e che è invece ormai sempre più urgente che finalmente venga fatto. Un po’ come applaudire – 55 volte – chi ti sta prendendo a schiaffi.
Gli applausi leggeri a Mattarella
Gli applausi dei parlamentari a Mattarella “in presenza” fanno il paio con l’ottima canzoncina “Una musica leggerissima”, cantata l’altro ieri al festival dagli ospiti Colapesce e Di Martino. Nessuno al teatro Ariston né in Rai s’è accorto che le sue parole, e l’indovinato contorno musicale, sono di fatto la critica feroce (anche) del festival. Critica feroce, ma molto garbata, “leggera, anzi leggerissima”, senza predicozzi e senza neppure alzare la voce.
Il grande spettacolo di Sanremo, sempre ottimo come punto d’osservazione del BelPaese, segue provvidenzialmente lo spettacolo quirinalizio parlamentare. Contribuendo così a farcelo dimenticare.
Spero di sbagliare. Forse è l’età che mi rende estraneo al “nuovo”, compreso quello senza virgolette, o che mi rende miope, mi impedisce di vederlo tutto e bene. La mia è una formazione umana, culturale e “valoriale” ormai obsoleta. Superata. Non serve a niente. Sta alla cultura e ai valori attuali come il telefono e il televisore di una volta stanno ai telefonini e ai televisori attuali. Sta come il consumo sta al consumismo. NON me ne faccio un vanto né mi lagno. E’ così. E basta.
“Andrà tutto bene”. Già sentito dire. E, visto che parliamo di canzoni, sentito anche cantare. Non solo dai balconi. Speriamo che prima o poi, meglio prima che poi, sia vero. Per natura, e formazione, sono ottimista. Almeno nella volontà. Chissà che il parlamento dia finalmente retta a Mattarella e faccia tutto o almeno gran parte di quello che c’è da fare.
Auguri, mia amata Italia.
Augurissimi, mia amatissima gioventù italiana. [“It was long time ago”, scriveva Cesare Pavese].
POST SCRIPTUM – Scusate il disturbo.