Test anti coronavirus, il pasticcio lombardo fra Pavia e Saluggia (un altro…). Il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) della Lombardia ha annullato un contratto tra la Fondazione del Policlinico S. Matteo di Pavia e l’azienda privata Diasorin Spa. Nel frattempo però quel contratto ha reso possibile un altro contratto. Stipulato il 28 marzo e ampliato il 28 aprile, tra la società Aria, proprietà della Regione Lombardia, e la Diasorin, che ha già incassato i due milioni di euro per una fornitura di test sierologici per il Covid-19, i test validati dal S. Matteo.
Test che nel frattempo sono stati utilizzati, cioè usati, dalla stessa Regione. Che effetto pratico potrà quindi avere la sentenza del TAR? Andiamo per ordine.
La Diasorin grazie a una ricerca condotta per suo conto dal policlinico San Matteo di Pavia con accordo firmato il 23 marzo ha potuto perfezionare e mettere a punto i test sierologici Elisa e Clia. Entrambi con il prelievo di sangue e l’analisi in laboratorio. E ha potuto anche ottenere la Marcatura CE. Essa attesta che si tratta di prodotti dotati dei requisiti previsti dalle direttive europee e che perciò può essere liberamente immesso sul mercato all’interno dell’Unione Europea.
Per vendere una robusta fornitura di test al sistema sanitario lombardo l’11 aprile. Però la Marcatura CE è arrivata solo successivamente, per l’esattezza il 17 aprile, vale a dire sei giorni dopo.
La Regione Lombardia, tramite la sua partecipata Aria, ampliando un ordine del 28 marzo – cioè di appena 5 giorni dopo la firma dell’accordo tra Diasorin e S. Matteo – ha chiesto alla Spa 5 mila contenitori di test sierologici. Con «confezioni da 100 determinazioni», per un costo unitario di 400 euro. Il valore della commessa è di 2 milioni. Aria specifica alla Diasorin che sono necessari «300mila determinazioni nel mese di maggio e 200mila nel mese di giugno».
Tutta la prassi è apparsa eccessivamente disinvolta alla società concorrente Techno Genetics, che ha perciò presentato un esposto alla Procura della Repubblica, alla Consob, all’Autorità garante della concorrenza e infine anche al TAR, che nelle utlime ore le ha dato ragione.
Il TAR ha infatti sentenziato che il contratto tra Diasorin e il Policlinico è nullo perché il S. Matteo avrebbe dovuto fare un bando di gara pubblico. Permettendo così anche ad altre società di mettere a punto i test sierologici per comprendere e studiare l’evoluzione dell’epidemia di Sars Cov 2.
Secondo il TAR, l’accordo diretto ha permesso alla Diasorin, che oltretutto è quotata in Borsa, un “indebito vantaggio competitivo … con conseguente alterazione della concorrenza nel mercato”.
Le sentenza rileva a chiare lettere che l’accordo tra Diasorin e S. Matteo “non è diretto alla semplice validazione di un prodotto finito, ma si articola nello sviluppo di un prototipo fornito dalla società, sulla base di una valutazione analitica e clinica, cui potrà seguire un ulteriore studio clinico per determinare le prestazioni diagnostiche conseguibili mediante un kit molecolare da sviluppare e, quindi, non ancora ultimato”.
Insomma, i ricercatori del S. Matteo sono stati utilizzati non per validare qualcosa di già esistente, ma per “conseguire un’invenzione sulla base di un prototipo fornito dalla società”.
La sentenza chiarisce anche che la Fondazione S. Matteo può legittimamente “avvalersi di altri soggetti per industrializzare i risultati della sua ricerca scientifica, svolta come attività istituzionale”. Ma non può porre “la sua struttura e le sue capacità a disposizione di un particolare soggetto privato. Per consentirgli di conseguire risultati scientifici che resteranno nell’esclusiva disponibilità del privato, anche per ciò che attiene alla proprietà e alla titolarità dei brevetti”.
Il TAR ha anche deciso la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti. Perché “la Fondazione San Matteo ha impegnato risorse pubbliche, materiali ed immateriali, con modalità illegittime, sottraendole, in parte, alla loro destinazione indisponibile”.
Poche settimane fa c’è stato un mandato di cattura per una strana storia di forniture milionarie di mascherine chirurgiche alla Regione Lombardia da parte di un proprietario di un piccolo negozio di abbigliamento, il 44enne Fabrizio Bongiovanni.
In queste ore c’è la strana storia della fornitura alla Regione Lombardia di camici e altro materiale protettivo sanitario, per un totale di 500 mila euro prima pagati e poi dopo 40 giorni restituiti, a quanto pare non tutti, da parte della società Dama Spa. Società che tra i suoi azionisti ha la moglie e il cognato di Attilio Fontana, cioè del presidente della Regione Lombardia.
Cosa succederà ancora?