Lehman Brothers, Fannie Mae, Freddie Mac: per quanto riguarda gli Stati Uniti sono stati questi i tre nomi simbolo della crisi del sistema finanziario emersa tra 2008 e 2010.
Per Francia e Belgio un solo nome, ma grosso assai, quello del gruppo bancario Fortis per il cui salvataggio sono dovuti accorrere al suo capezzale ben tre Stati.
In Gran Bretagna diversi istituti in difficoltà hanno subìto una parziale nazionalizzazione ma il caso più clamoroso è stato senz’altro quello della Royal Bank of Scotland, una delle più importanti e antiche banche del Regno, che aveva pensato di espandersi acquistando Abn Amro a caro prezzo. Un boccone indigesto che nel solo 2008 ha portato la Royal a perdite per circa 28 miliardi di sterline e nelle braccia del governo.
In Islanda sono fallite le tre maggiori aziende di credito, in Spagna… Fermiamoci qui: il parziale elenco ci serviva solo a ricordare che per le banche italiane la grande crisi degli ultimi anni ha comportato finora solo qualche “modesta” fibrillazione e che la rete di salvataggio predisposta dal ministro Giulio Tremonti per agevolare una ricapitalizzazione degli istituti più esposti è rimasta praticamente inutilizzata.
Tutto bene, dunque? Le banche del Bel Paese sono più sane che altrove e possiamo dormire sonni tranquilli? Se la ripresa internazionale si consolidasse e soprattutto se il nostro paese riuscisse ad agganciarsi al convoglio dei maggiori industrializzati, assumendone quindi la medesima velocità, allora forse potremmo scacciare le preoccupazioni. Ma molti segnali indicano che la ripresa all’italiana è debolissima e procede a un ritmo assai inferiore a quello dei nostri partner. Quindi il rischio permane, anzi s’accresce.
Ebbene sì: per le banche italiane l’annus horribilis potrebbe essere proprio il 2011. Fatti i debiti scongiuri, vediamo un po’ perché proprio nei prossimi mesi si addenseranno sul sistema bancario della Penisola i più scuri nuvoloni.
Con gli accordi di “Basilea 3” i governatori delle maggiori banche centrali del mondo hanno stabilito per le aziende di credito nuovi e più stringenti requisiti patrimoniali, cercando in tal modo di metterle al riparo dal ripetersi di crisi come quella dei “subprime” che è stata all’origine di tante vittime illustri, come quelle ricordate pocanzi. Per non contribuire al soffocamento di economie già col fiato corto, i governatori hanno scelto la strada di un marcato gradualismo nell’implementazione delle nuove misure: cominceranno a essere introdotte nel gennaio 2013 per approdare al cento per cento solo alla fine del 2018. Fin da ora è comunque opportuno che anche le banche italiane comincino a prepararsi: la Banca d’Italia ha stimato che le nuove compatibilità comporteranno per i nostri istituti un aumento dei fondi pari a circa 40 miliardi. Una somma di per sé non insostenibile, ma comunque pari a tre-quattro volte la redditività annuale dell’intero sistema bancario nostrano. Per fortuna c’è la gradualità.
Non aspetterà però anni, ma sì e no qualche mese, invece, le nuova ondata di “stress test” cui saranno sottoposte le banche europee – e quindi anche le italiane – per verificare le loro capacità di tenuta in caso di shock e il loro grado di liquidità. I risultati delle prove verranno resi pubblici e questo impone agli istituti dagli equilibri meno solidi interventi fin dal brevissimo termine, altro che gradualismo! Fin qui, comunque, mal comune mezzo gaudio: ricapitalizzazioni e test toccano le banche di tutti i paesi e quelle italiane non sembrano particolarmente sfavorite.
Le aziende di credito tricolori sono invece attese nei prossimi mesi a una prova decisamente più impegnativa: nel loro complesso nel 2011 verranno a scadenza e dovranno essere rinnovate obbligazioni per 245 miliardi, una somma superiore a quella di tutti i Btp da collocare nello stesso periodo (225 miliardi). Intesa Sanpaolo, tanto per fare un esempio, quest’anno avrà in scadenza oltre 41 miliardi di bond, mentre Unicredit ne dovrà rimpiazzare oltre 18, il Banco Popolare più di 11 e via elencando.
Per le due montagne di titoli, quelli bancari e quelli statali, vale una sorta di principio dei vasi comunicanti o, per meglio dire, dei tassi comunicanti: se, come ha già iniziato ad accadere, i titoli di Stato per svariati motivi pagano interessi più alti che in passato, anche i bond delle banche non potranno sottrarsi ad offrire di più ai risparmiatori. Occorre tener conto che le obbligazioni bancarie sono favorite dal fatto che i consulenti i quali “guidano” i risparmiatori che cercano in banca una parola amica – e spesso li mandano fuori strada con cattivi e interessati consigli, vedi i casi dei bond argentini, di Parmalat o di Cirio – li indirizzano prioritariamente verso i titoli della loro “ditta”. D’altro canto, però, i bond bancari sono meno “liquidi” dei titoli di Stato per chi vuole realizzare prima della scadenza perché non hanno un mercato altrettanto sviluppato e a volte neppure quotazioni giorno per giorno. Poiché non tutti i risparmiatori sono sprovveduti e spesso sono invece più o meno consapevoli di questo limite e della inferiore garanzia rispetto ai Btp, le banche debbono incentivare gli investitori a scegliere i loro prodotti e quindi, in primo luogo, offrire interessi un po’ superiori a quelli correnti dei titoli di Stato.