Crisi e prezzi: occhio all’etichetta

ROMA – La crisi economica che a fatica l’Italia cerca di lasciarsi alle spalle ha aumentato in questi ultimi anni la fascia sociale dei poveri, ha drasticamente tagliato le altrimenti notevoli capacità di risparmio degli italiani, ha accresciuto il numero dei senza lavoro e dei lavoratoti precari e saltuari. La cosiddetta questione della “quarta settimana”, o, in altre parole, di come arrivare alla fine del mese con una capacità d’acquisto che già prima della crisi si era notevolmente ridotta per il lavoro dipendente, investe strati sociali sempre più ampi. E ne stimola l’inventiva: gruppi d’acquisto che si rivolgono direttamente ai produttori saltando l’ingrosso e la distribuzione commerciale; incremento dei clienti degli hard discount; cambiamenti nella composizione della spesa, ecc. ecc.

Dello stesso segno è un fenomeno che merita qualche attenzione: la crescita della quota di mercato nella grande distribuzione organizzata (Gdo, supermercati e ipermercati) delle “private label”. Trattasi di quei prodotti, alimentari ma non solo, e di quei servizi che le catene della Gdo commercializzano con un marchio che può richiamarsi esplicitamente alla catena distributiva (ad esempio i prodotti a marchio Coop) oppure non esplicitare tale legame (ad esempio Clever per Billa o Consilia per il gruppo Sun). Questi prodotti, in generale anche se non sempre, come vedremo, sono venduti a un prezzo inferiori anche del 50 per cento rispetto a quello dell’analogo bene della marca leader, la più nota e pubblicizzata, che si può trovare nello stesso supermercato.

Per la precisione, esistono diverse tipologie di private label. La più diffusa è quella cosiddetta del “primo prezzo”, vale a dire del prezzo più basso per quel tipo di merce. Sono questi beni che possono avere prezzi inferiori anche del 50 per cento e che negli ultimi anni ha conosciuto un incremento delle vendite assai maggiore di quello dei prodotti a prezzo “medio”. Questi ultimi sono soprattutto quelli che fanno capo alla tipologia del cosiddetto prodotto-insegna, che cioè porta lo stesso nome della catena che lo commercializza: in questo caso in genere lo sconto non supera il 25 per cento.

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