ROMA – Un calo delle assunzioni in Italia, nel quarto trimestre di quest’anno, dell’11 per cento, con una punta del 21 per cento al Sud e nelle isole (previsioni Manpower); un giovane su tre è senza lavoro, mentre uno su due degli under 25 occupati ha un contratto a tempo determinato (rapporto Ocse sull’occupazione); fra i giovani disoccupati sono ormai quasi la metà (48,5 per cento) quelli che ricercano un posto da più di un anno (Ocse e centro studi Confindustria); l’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di laureati con un’occupazione (Commissione Ue).
Quasi quasi vi abbiamo fatto il callo: a ogni trimestre, o anche più di frequente, istituzioni internazionali e nazionali snocciolano drammatici dati sulla disoccupazione, specie giovanile, e/o sulla scadente qualità dei lavori più richiesti dal mercato italiano.
In questo periodo di crisi il dato italiano complessivo della disoccupazione (attorno all’8 per cento, con una punta massima all’8,5) non è dei peggiori, anzi è migliore di quello di molti altri paesi sviluppati, anche se si deve tener conto che probabilmente lo Stivale, oltre ad avere parecchia disoccupazione sotto le spoglie della cassa integrazione, ha un numero più elevato di lavoratori “scoraggiati”, che cioè il lavoro non lo cercano nemmeno più avendo troppo poche speranze di trovarlo (specie nel Mezzogiorno) e quindi non figurano neanche tra le fila dei disoccupati. Ma questo dato apparentemente “tranquillizzante” (per chi si accontenta di poco) sottende una realtà del mercato del lavoro che è profondamente mutata negli ultimi anni, e non in meglio.
Imputato numero uno del peggioramento del mercato del lavoro (e non solo di quello) è lo sconsiderato ampliamento delle forme di lavoro a tempo determinato. E’ vero che questa “modernizzazione” dell’occupazione, questa flessibilità assai più diffusa che in passato, ha portato significativi aumenti dei posti di lavoro in alcuni segmenti del mercato, in particolare per quel che riguarda i giovani, le donne e soprattutto alcune quote di persone precedentemente inoccupate (che non avevano mai lavorato). E’ altresì vero che i nuovi occupati di questi ultimi anni sono stati in larga maggioranza assunti con questo tipo di contratti precari, pochissimi quelli che hanno ottenuto nuovi contratti a tempo indeterminato.
Soprattutto non si è verificato ciò che molti davano per scontato, e che almeno in una certa misura si verificava nel passato, e cioè che questi lavoratori “flessibili”, dopo un periodo di precariato, entrassero a far parte dei ranghi dei “garantiti”, ottenessero cioè l’agognato contratto a tempo indeterminato. Complice la crisi che ha falcidiato anche e particolarmente le legioni dei precari, ma a causa soprattutto di una legislazione che ha moltiplicato il numero di contratti a tempo determinato e reso allungabile all’infinito la loro durata, quel passaggio al lavoro stabile è divenuto sempre più raro. In altre parole, si è reso evidente che la flessibilità all’italiana è a senso unico: ha favorito l’ingresso al precariato ma nient’affatto al posto garantito.
Solitamente l’eccesso di flessibilità viene criticato per i danni che comporta al tenore di vita dei precari: un’insicurezza che si protrae fino agli “anta”, l’impossibilità di contrarre mutui e di formarsi una famiglia e così via. Tre recenti interventi nel dibattito economico hanno puntato i riflettori su un’altra piaga della flessibilità nostrana: la sua crescita “selvaggia” ha danneggiato l’aumento della produttività del paese e quindi la sua competitività internazionale. Il che è come dire che ha danneggiato pure il livello dell’occupazione a medio-lungo termine.
Per primo il governatore di Bankitalia, e presto della Bce, Mario Draghi, già quasi un anno fa ha sinteticamente ricordato che “le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che nei maggiori paesi dell’area euro; ma senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolosce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”.