Manovra: tasse, tagli e banalità

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 15 Settembre 2011 - 18:00 OLTRE 6 MESI FA

Bacio Berlusconi-Marcegaglia (Lapresse)

ROMA – Emma Marcegaglia è tornata ancora ieri ad attaccare la manovra economica del governo con un argomento che ha già utilizzato diverse volte in queste ultime settimane, tanto da diventare un leit motiv ripreso da giornali e tv: “È una manovra fatta per due terzi da tasse, mentre mancano i tagli strutturali alla spesa e c’è stato un balletto intorno alla riduzione dei costi della politica risoltosi nel nulla”. Conclusione: “È un’operazione depressiva”. Per la verità la presidente di Confindustria, che usufruisce di un ottimo servizio studi, aggiunge che mancano incentivi agli investimenti e riforme strutturali. Ma questa seconda parte del suo giudizio, a dirla tutta appena accennata, fa meno “colpo” sulle fonti d’informazione e quindi viene perlopiù cassata o messa in sordina. Il risultato è che sta prendendo piede una “vulgata” di critica al governo, una semplificazione davvero eccessiva: troppe tasse più pochi tagli uguale depressione.

Ne conseguono “consigli” di politica economica del tipo: ridurre il numero dei dipendenti pubblici, congelare i loro aumenti salariali, tagliare le spese della politica, vendere o svendere quanto più possibile del patrimonio pubblico, decurtare drasticamente le spese per le forniture ai vari ministeri e quelle degli enti locali, ecc. ecc. Tutte misure in piccola parte già adottate e che in alcuni casi sarebbe certamente opportuno realizzare più incisivamente. Ma anche tutti interventi che hanno un “effetto depressivo”, né più né meno degli aumenti delle imposte. Ridurre la spesa per i dipendenti pubblici o quella per gli acquisti della pubblica amministrazione o financo vendere immobili pubblici, infatti, significa ridurre di altrettanto la domanda complessiva (nel caso della vendita di beni pubblici si drena risparmio che magari altrimenti si indirizzerebbe ad altri investimenti, stimolando la congiuntura).

Bisogna quindi evitare le banalizzazioni, i luoghi comuni del tipo ci vogliono meno tasse e più tagli, per chiedersi invece, di fronte a ciascuna specifica nuova imposta e a ciascun determinato nuovo colpo di scure quale sia il suo “grado depressivo”, se così vogliamo chiamarlo.

Un esempio: un’addizionale sul reddito, come quelle che sono stati autorizzati a introdurre gli enti locali, sicuramente tenderà a tradursi in larga misura in una contrazione dei consumi, tanto più in quanto essa verrà applicata a tutti i livelli di reddito; una patrimoniale, invece, potrebbe comportare una minore incidenza sulla spesa complessiva (ma non è così scontato: è stato dimostrato che i detentori di ricchezza, dopo l’introduzione di una simile imposta, tenderanno ad aumentare la quota di reddito risparmiata per riportare il loro patrimonio al livello precedente, spesso considerato come una ciambella di salvataggio “su misura” e incomprimibile per tempi più grami).

Altro esempio: bloccare l’adeguamento delle pensioni alla crescita dei prezzi significa sicuramente sottrarre reddito ai consumi e in parte anche ai risparmi e quindi agli investimenti; allungare l’età pensionabile, invece, non comporta decurtazioni del reddito complessivo, a parte l’eventualità (molto improbabile) che a ciascun ritiro dal lavoro corrisponda una nuova assunzione. A quest’ultimo proposito ha scritto di recente l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa: “È radicata l’idea che se i ‘padri’ vanno in pensione presto, si potrebbero liberare posti di lavoro per i ‘figli’. Ma è un’idea sbagliata, che non trova conforto né nelle riflessioni teoriche, né nelle esperienze concrete. Nei paesi dove gli anziani lavorano più a lungo, la disoccupazione giovanile è più bassa“.

Certi aumenti delle spese, come quelle per la ricerca, per la scuola e l’università, per l’innovazione tecnologica, e via elencando, se realizzati senza sprechi né approssimazioni, possono determinate aumenti del prodotto interno lordo assai maggiori e più duraturi dell’investimento iniziale. Piuttosto che tagliare la spesa in assoluto, si tratta quindi di trasferire spesa da capitoli tradizionali e con un basso “moltiplicatore” ad altri più innovativi e con effetti a cascata sul reddito (o utilizzare le nuove entrate a tal fine, ciò che è lo stesso).

La logica che ha presieduto alla manovra del governo, invece, è stata quella di raggiungere come che sia (salvo sorprese) un saldo della finanza pubblica prestabilito, vale a dire il pareggio di bilancio entro il 2013. Ottenuto, forse, chissà, l’obiettivo, a qualunque richiesta di interventi per lo sviluppo la risposta è stata: non ci sono più risorse, abbiamo tagliato e tartassato per 54 miliardi di euro, di più non si può. A parte il fatto che vi sono riforme con effetti espansivi e a costo zero, pensiamo alla liberalizzazione delle professioni o a una riforma della giustizia che ad esempio riduca i gradi di giudizio e velocizzi innanzitutto le cause civili (è stato stimato che gli attuali processi-tartaruga ci costino un punto del Pil), la strada seguita da Berlusconi & co. ci mantiene imprigionati dentro il tunnel depressivo, senza speranza di uscirne in tempi ragionevoli, con la prospettiva di nuove manovre a stretto giro di posta e con buone probabilità di aggravare ulteriormente i già allarmanti problemi del debito pubblico.