Troppa assistenza manda in rosso l’Inps

ROMA – Ancora pochi mesi fa, nel marzo scorso, il presidente dell’Inps, Antonio Mastropasqua, assicurava che il cosiddetto “cantiere previdenziale” era ormai chiuso. Fuor di metafora, lo stillicidio di riforme e riformine per mettere in sicurezza i bilanci dell’ente pensionistico si poteva considerare completato. Vari ministri, Maurizio Sacconi in prima fila, erano ancora più ottimisti e andavano sostenendo che la riforma italiana della previdenza ci aveva portato su lidi finanziari sicuri, molto più che in altri paesi i quali avrebbero dovuto guardare alla Penisola e imitarci.

Poi sono arrivati gli scossoni economico-finanziari dell’estate, il boom dello spread Btp-Bund, le flessioni della Borsa, la crisi sempre più accentuata dei Pigs divenuti Piigs con l’ingresso a tutti gli effetti dell’Italia nel poco ambito club. E si è ricominciato a parlare dell’urgenza di una nuova riforma previdenziale, dell’aumento dell’età pensionabile delle donne, dell’abolizione delle pensioni di anzianità, del passaggio al contributivo per tutti e via mazzolando. In realtà in questi mesi poco si è fatto in queste direzioni, a parte un molto graduale aumento delle soglie pensionistiche femminili, soprattutto per la combinata opposizione di Lega e confederazioni sindacali. Ma la partita è tutt’altro che chiusa, come ha chiaramente ricordato la lettera di Trichet e Draghi al governo italiano e ancor più i permanenti segnali di sfiducia dei mercati sul nostro debito sovrano.

La questione previdenziale, quindi, è tornata in auge innanzitutto perché pare un passaggio obbligato per “fare cassa” in una situazione della finanza pubblica particolarmente difficile (i sindacati ribadiscono a ogni piè sospinto che sarebbero anche disponibili a ridiscutere di pensioni, purché non fosse un modo per “fare cassa”: mi chiedo cosa vi sia di così sconveniente nel ricercare una riduzione delle uscite, soprattutto se si riesce a farlo, ed è possibile, in un contesto di equità anche intergenerazionale). Ma, accanto a questa esigenza di riequilibrio generale dei conti pubblici, nelle ultime settimane si vanno moltiplicando specifici allarmi riguardanti più strettamente i conti dell’Inps.

Tutti i bla-bla-bla sulla ormai raggiunta “messa in sicurezza” del bilancio dell’Istituto di via Ciro il Grande stanno lasciando il passo a scenari apocalittici, a visioni di spese galoppanti all’impazzata, a orizzonti contrassegnati da pericoli di default del sistema previdenziale. Solo negli ultimi due-tre giorni si sono susseguite le notizie che il bilancio Inps del 2011 chiuderà in rosso per 2,9 miliardi, che fra i dipendenti pubblici è riesplosa la corsa alle pensioni di anzianità (più 34 per cento nei primi nove mesi del 2011, grazie all’effetto annuncio di modifiche del sistema che poi non vengono realizzate), che in quarant’anni l’indice di vecchiaia della popolazione italiana (rapporto tra under 14 e over 65) si è più che triplicato, che nello stesso periodo la spesa pensionistica in percentuale del Pil è pressoché raddoppiata, e così via.

La stura a questa cascata di catastrofiche notizie l’ha data un mese fa una lunga lettera di Alberto Brambilla al “Corriere della Sera”. Per chi non lo ricordasse, il suddetto Brambilla è stato sottosegretario al ministero del Welfare nel secondo e terzo governo Berlusconi, con delega al sistema previdenziale, ed è oggi presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del Lavoro: è quindi uno dei massimi esperti in questo campo. Oltretutto è un comasco di area leghista: in quanto tale dovrebbe far sua la parola d’ordine bossiana “le pensioni non si toccano” ma invece la sua lettera tendeva tutta a dimostrare che andavano toccate al più presto, pena il disastro.

Cosa scriveva dunque di così terribile il sior Brambilla? Ad esempio sottolineava che dal rapporto tra contributi effettivamente incassati e prestazioni erogate il bilancio previdenziale evidenziava “un crescente deficit” che deve essere coperto dal bilancio statale: “nel 2009 il sistema pensionistico pubblico, nonostante i numerosi interventi correttivi, ha presentato un deficit di circa 8,9 miliardi”. Inoltre calcolava che ai dipendenti privati e pubblici dovrebbe venire prelevato, rispettivamente, il 46,6 e il 45,1 per cento delle retribuzioni lorde per finanziare le prestazioni (anziché il già alto 33 per cento che versano attualmente). A tutto ciò va aggiunto che tutte le previsioni sul livello dei trattamenti pensionistici futuri, di quelli che hanno iniziato da poco o stanno iniziando a lavorare, concordano nello stimare livelli di pensione bassissimi, in molti casi – soprattutto per i precari – inferiori a quelli dell’attuale pensione sociale.

I commenti sono chiusi.

Gestione cookie