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Troppa assistenza manda in rosso l’Inps

di Alessandro Avico |5 Ottobre 2011 10:12

ROMA – Ancora pochi mesi fa, nel marzo scorso, il presidente dell’Inps, Antonio Mastropasqua, assicurava che il cosiddetto “cantiere previdenziale” era ormai chiuso. Fuor di metafora, lo stillicidio di riforme e riformine per mettere in sicurezza i bilanci dell’ente pensionistico si poteva considerare completato. Vari ministri, Maurizio Sacconi in prima fila, erano ancora più ottimisti e andavano sostenendo che la riforma italiana della previdenza ci aveva portato su lidi finanziari sicuri, molto più che in altri paesi i quali avrebbero dovuto guardare alla Penisola e imitarci.

Poi sono arrivati gli scossoni economico-finanziari dell’estate, il boom dello spread Btp-Bund, le flessioni della Borsa, la crisi sempre più accentuata dei Pigs divenuti Piigs con l’ingresso a tutti gli effetti dell’Italia nel poco ambito club. E si è ricominciato a parlare dell’urgenza di una nuova riforma previdenziale, dell’aumento dell’età pensionabile delle donne, dell’abolizione delle pensioni di anzianità, del passaggio al contributivo per tutti e via mazzolando. In realtà in questi mesi poco si è fatto in queste direzioni, a parte un molto graduale aumento delle soglie pensionistiche femminili, soprattutto per la combinata opposizione di Lega e confederazioni sindacali. Ma la partita è tutt’altro che chiusa, come ha chiaramente ricordato la lettera di Trichet e Draghi al governo italiano e ancor più i permanenti segnali di sfiducia dei mercati sul nostro debito sovrano.

La questione previdenziale, quindi, è tornata in auge innanzitutto perché pare un passaggio obbligato per “fare cassa” in una situazione della finanza pubblica particolarmente difficile (i sindacati ribadiscono a ogni piè sospinto che sarebbero anche disponibili a ridiscutere di pensioni, purché non fosse un modo per “fare cassa”: mi chiedo cosa vi sia di così sconveniente nel ricercare una riduzione delle uscite, soprattutto se si riesce a farlo, ed è possibile, in un contesto di equità anche intergenerazionale). Ma, accanto a questa esigenza di riequilibrio generale dei conti pubblici, nelle ultime settimane si vanno moltiplicando specifici allarmi riguardanti più strettamente i conti dell’Inps.

Tutti i bla-bla-bla sulla ormai raggiunta “messa in sicurezza” del bilancio dell’Istituto di via Ciro il Grande stanno lasciando il passo a scenari apocalittici, a visioni di spese galoppanti all’impazzata, a orizzonti contrassegnati da pericoli di default del sistema previdenziale. Solo negli ultimi due-tre giorni si sono susseguite le notizie che il bilancio Inps del 2011 chiuderà in rosso per 2,9 miliardi, che fra i dipendenti pubblici è riesplosa la corsa alle pensioni di anzianità (più 34 per cento nei primi nove mesi del 2011, grazie all’effetto annuncio di modifiche del sistema che poi non vengono realizzate), che in quarant’anni l’indice di vecchiaia della popolazione italiana (rapporto tra under 14 e over 65) si è più che triplicato, che nello stesso periodo la spesa pensionistica in percentuale del Pil è pressoché raddoppiata, e così via.

La stura a questa cascata di catastrofiche notizie l’ha data un mese fa una lunga lettera di Alberto Brambilla al “Corriere della Sera”. Per chi non lo ricordasse, il suddetto Brambilla è stato sottosegretario al ministero del Welfare nel secondo e terzo governo Berlusconi, con delega al sistema previdenziale, ed è oggi presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del Lavoro: è quindi uno dei massimi esperti in questo campo. Oltretutto è un comasco di area leghista: in quanto tale dovrebbe far sua la parola d’ordine bossiana “le pensioni non si toccano” ma invece la sua lettera tendeva tutta a dimostrare che andavano toccate al più presto, pena il disastro.

Cosa scriveva dunque di così terribile il sior Brambilla? Ad esempio sottolineava che dal rapporto tra contributi effettivamente incassati e prestazioni erogate il bilancio previdenziale evidenziava “un crescente deficit” che deve essere coperto dal bilancio statale: “nel 2009 il sistema pensionistico pubblico, nonostante i numerosi interventi correttivi, ha presentato un deficit di circa 8,9 miliardi”. Inoltre calcolava che ai dipendenti privati e pubblici dovrebbe venire prelevato, rispettivamente, il 46,6 e il 45,1 per cento delle retribuzioni lorde per finanziare le prestazioni (anziché il già alto 33 per cento che versano attualmente). A tutto ciò va aggiunto che tutte le previsioni sul livello dei trattamenti pensionistici futuri, di quelli che hanno iniziato da poco o stanno iniziando a lavorare, concordano nello stimare livelli di pensione bassissimi, in molti casi – soprattutto per i precari – inferiori a quelli dell’attuale pensione sociale.

A prima vista, di fonte a simili allarmi, nemmeno l’accelerazione dell’eliminazione delle pensioni di anzianità o quella dell’aumento dell’età di pensionamento femminile parrebbero sufficienti. Che fare, dunque? Tagliare le indennità di quiescienza già in essere? Aumentare i contributi previdenziali in un paese dove già la differenza tra costo del lavoro e retribuzioni nette è abissale? Ridurre i trattamenti futuri, addossando alle prossime generazioni un ulteriore prezzo da pagare?

Macché: a parte le due prime misure (anzianità ed età femminile), tutto il resto comporterebbe un’ulteriore, massiccia dose di iniquità sociale in un sistema previdenziale che ne ha già parecchia. Il perché è presto detto e gli allarmisti, soprattutto quelli “esperti” di pensioni, farebbero bene a evidenziarlo. Nel bilancio dell’Inps le uscite per pagare le pensioni ai lavoratori dipendenti sono più che compensate dalle entrate dei loro contributi. Tant’è che il comparto del lavoro dipendente presenta un attivo di 1,5 miliardi. Ancora più pesante è l’attivo dei parasubordinati o precari che dir si voglia: 7,2 miliardi. I buchi neri – o, meglio, i buchi rossi – stanno altrove. Innanzitutto nel comparto dei lavoratoti autonomi, coltivatori diretti, artigiani e commercianti, che hanno aliquote contributive attorno al 20 per cento (contro il 33 dei dipendenti). Poi nei “fondi speciali” (o ex fondi speciali), come quelli dei lavoratori dei trasporti, di quelli dell’elettricità e soprattutto dei dirigenti (quest’ultimo produce oltre 3,5 miliardi di perdite annue). Vi è quindi l’esigenza di un riequilibrio delle regole e dei contributi per la previdenza all’interno del mondo del lavoro nel suo complesso: impresa senz’altro difficile per quel che riguarda le pensioni già erogate, soprattutto per via dei “diritti acquisiti”, ma assolutamente improcrastinabile per il futuro anche prossimo.

Inoltre il bilancio dell’Inps, malgrado i cospicui trasferimenti statali, è appesantito da molteplici voci che con la previdenza non hanno nulla a che fare e che rappresentano piuttosto interventi assistenziali. Faccio qualche esempio: 1) le pensioni sociali, erogate a chi non ha avuto una vita lavorativa o non ha mai versato contributi; 2) le integrazioni al minimo per far ottenere un trattamento di sopravvivenza anche a chi non ha versato una quantità sufficiente di contributi; 3) le pensioni di invalidità civile e quelle di guerra (solo di queste ultime ve ne sono ancora 340 mila); 4) le varie indennità, da quelle di accompagnamento (13 miliardi annui) per gli invalidi civili totali a quelle per le minorazioni parziali; 5) le pensioni di reversibilità (27,6 miliardi) che però rappresentano più una forma di solidarietà fra aventi diritto alla pensione da lavoro che una forma di assistenza in senso stretto; 6) le contribuzioni figurative in caso di disoccupazione e la cassa integrazione guadagni.

Queste sono senz’altro le voci più significative, anche se non le uniche, delle erogazioni assistenziali che lo Stato fa gestire all’Inps e che in parte risarcisce con opportune trasfusioni di sangue. Perché insisto sull’aspetto assistenziale e non previdenziale dei trattamenti sopra elencati? Perché quando si parla del ritorno in rosso del bilancio Inps si tende a fare di tutta l’erba un fascio, senza distinguere tra previdenza e assistenza, col rischio di promuovere interventi di risanamento dei conti a carico dei lavoratori dipendenti, stabili o precari, in termini di allungamento della vita lavorativa o di restrizione delle prestazioni. Se è giusto che siano fatti i ritocchi già ricordati su anzianità ed età delle donne, soprattutto per un’esigenza di solidarietà ed equità intergenerazionale, nel caso dell’assistenza la correzione degli squilibri va fatta o riducendo le prestazioni (sappiamo bene che vi sono diffusi sprechi, si pensi alle pensioni di invalidità) o ricorrendo alla fiscalità generale, cioè alle imposte dirette e indirette che vengono prelevate a tutti, indipendentemente dalla loro collocazione nel mondo del lavoro.

Un esempio: sarebbe giusto che gli assegni di accompagnamento ai non vedenti fossero pagati solo dai lavoratori dipendenti e non dai pensionati, dai detentori di azioni e titoli pubblici, dagli imprenditori, dai possessori di patrimoni, insomma dai cittadini in generale? Evidentemente no. Eppure, quando si parla dei conti Inps la confusione tra previdenza e assistenza si ripropone in continuazione, anche da parte di esperti che sanno benissimo che “la quota (di erogazioni, ndr.) da finanziare con la fiscalità generale raggiunge i 75 miliardi di euro (circa 5 punti del Pil)” (Brambilla dixit). Sono soldi che in larghissima misura vengono trasferiti dallo Stato alle casse dell’Inps. E così deve essere. Chiediamoci piuttosto se il paese è sufficientemente ricco per potersi permettere di saldare questa spesa o non debba pensare a ridurla. E come fare per tagliare qualche miliardo senza toccare quelle prestazioni di minima civiltà e solidarietà verso i cittadini meno fortunati, incomprimibili da parte di una delle prime potenze economiche mondiali.

 

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