Nei giorni scorsi qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo. Prendendo un clamoroso abbaglio. Le ultime aste dei titoli pubblici dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) nonché di quelli italiani sono andate oltre le previsioni: la richiesta è stata abbondante e gli spread rispetto ai bund tedeschi hanno persino subìto qualche limatura. La doccia fredda è arrivata molto presto: la Banca centrale europea ha reso noto che i suoi acquisti di bond del debito sovrano dei paesi “deboli” dell’area euro erano aumentati, nella settimana tra il 10 e il 14 gennaio, di parecchie volte rispetto al periodo precedente, sfiorando 1,5 miliardi.
Quindi, poco da stare allegri: che sarebbe successo, infatti, senza il provvidenziale soccorso di Francoforte? E per quanto ancora si potrà far conto sui salvagenti della Bce e dell’Efsf (l’apposito fondo europeo per i paesi in difficoltà), anche tenendo conto che frau Merkel ha seri problemi ad accettare che si aumentino le risorse per gli aiuti ai soci dell’euro con i conti più disastrati, pressata com’è dai suoi alleati liberali che non ne vogliono sapere e minacciano una crisi?
Ordunque anche la questione dell’immenso debito pubblico italiano rimane all’ordine del giorno e non è divenuta affatto meno pressante: stiamo seduti su un vulcano (di debiti) che borbotta e potrebbe non limitarsi a questo. Lo stesso boss dell’Eurotower, Jean-Claude Trichet, è tornato a menzionare nei giorni scorsi l’Italia come uno dei paesi dell’area euro dove le tensioni sul mercato del debito sovrano rimangono elevate.
Sul tema è intervenuto, il 18 gennaio sul “Corriere”, Michele Salvati, con un articolo dal titolo che è tutto un programma: “Le soluzioni (impossibili) per ridurre il debito pubblico”. Il brillante economista vi sosteneva la necessità di un drastico taglio del debito, dall’attuale 120 per cento del pil all’80, da realizzarsi “nel giro di 3 o 4 anni”: solo con una “rottura di continuità” di queste dimensioni il Paese potrebbe a suo avviso riavviarsi su un cammino di sviluppo abbandonato da tempo. Salvati non lo esplicita, ma il traguardo indicato in percentuale del pil equivale, miliardo più miliardo meno, a oltre 600 miliardi di euro cioè, “in 3 o 4 anni”, 150-200 miliardi all’anno: un risultato svariate volte più cospicuo di quelli mai raggiunti dalle leggi finanziarie fin qui viste, compresa quella “lacrime e sangue” varata da Giuliano Amato nel 1992 (93 mila miliardi di lire, meno di 50 miliardi di euro), anno in cui il “dottor sottile” mise le mani persino nei conti bancari degli italiani.
Che cosa comporterebbe la realizzazione di un “taglio” straordinario avente le proporzioni indicate da Salvati? Certo, l’Italia uscirebbe dalla stressante condizione di Paese in balìa di ogni attacco speculativo. Inoltre la politica economica ordinaria riacquisterebbe margini importanti di manovra e la possibilità di ottenere consistenti avanzi primari (al netto degli interessi sul debito), tali da consolidare un percorso virtuoso di risanamento. Ma c’è da temere che la cura da cavallo salvatiana metta ko il paziente frenando troppo bruscamente la domanda.
Vediamo ora perché l’economista cremonese ritiene che l’operazione di finanza straordinaria di cui sopra sia almeno altrettanto “impossibile” che necessaria. Per ridurre il rapporto debito/pil di 40 punti in breve tempo, sostiene l’ex leader della “scuola di Modena”, sono a disposizione due strade, entrambe, ad opinione di Salvati, impercorribili. La prima consiste nella vendita di un’ampia quota di patrimonio pubblico. E’ una soluzione già sperimentata altre volte, ma ostacoli burocratici e amministrativi impediscono che si possano ottenere in breve tempo risultati dell’ordine di grandezza individuato. La seconda via sarebbe quella di un’imposta patrimoniale straordinaria a carico degli italiani più “benestanti”.
Amato ha gettato là di recente un esempio: un prelievo di 30 mila euro ciascuno che graverebbe su un terzo dei cittadini, quelli appunto più “ricchi”. Non vi è chi non veda che si tratterebbe di misure da governo giacobino di salute pubblica le quali, oltretutto, data la distribuzione del carico fiscale in Italia e l’evasione che caratterizza il sistema, finirebbero per colpire in modo insopportabile il lavoro dipendente di medio-alto livello: tutti gli individui con un reddito lordo dichiarato fra i 70 e i 100 mila euro annui dovrebbero “contribuire” al risanamento con 30 mila euro!
Più che una strada per riequilibrare le finanze appare anche questa un vicolo cieco, Così Salvati conclude il suo ragionamento: “Meglio tacere, dunque? Sì, forse è meglio tacere, se però siamo consapevoli che l’inutilità di parlare è parte della situazione di un Paese incapace di invertire, con un colpo di reni, la tendenza al ristagno sulla quale è da tempo avviato”. Forse il pessimismo dell’intelligenza di Salvati andrebbe temperato con un po’ di ottimismo della volontà. Sia la vendita di patrimonio pubblico che un’imposizione patrimoniale sono strumenti che, sotto le specie di misure di finanza pubblica ordinaria, potrebbero concorrere a un risanamento assai più graduale di quello prospettato dall’economista lombardo.
Indubbiamente il gradualismo comporta che sul medio periodo la nave della finanza pubblica e dell’economia italiana continui a procedere in un mare procelloso. Ma dare un segnale che si è imboccato un tragitto di risanamento potrebbe essere di grande aiuto nel placare le acque in un tempo ragionevole, sarebbe un intervento quasi altrettanto efficace di un improbabile “colpo di reni”. Esclusa la possibilità delle due misure straordinarie ricordate, perché gettare il pupo con l’acqua sporca ed escluderne anche una versione ordinaria? In altre parole, si potrebbe realizzare innanzitutto una vendita a ritmo costante e regolare di pezzi del patrimonio pubblico, sulla base di un graduale inventario. E poi anche una patrimoniale imperniata su un’aliquota assai bassa sulla ricchezza (non solo quella immobiliare) ma prelevata annualmente (che cos’era, d’altronde e assai imperfettamente, l’Ici, abolita sulle prime case e che ora si vuol far rientare dalla finestra?).
Si dirà che misure di questo genere, assieme ad altre di riordino della tassazione sulle rendite finanziarie e di contenimento della spesa, sono ingredienti consueti delle leggi di stabilità (le ex finanziarie) per limitare i deficit, mentre altra cosa è l’abbattimento del debito una tantum e in misura rilevante. Ma, ribadisco, è proprio quest’ultima prospettiva a suscitare perplessità, sia per le difficoltà tecniche rilevate da Salvati che per gli effetti di contrazione della domanda che implicherebbe. Una riduzione costante e regolare del due-tre per cento annuo nel rapporto tra debito pubblico e pil pare un obiettivo al contempo più realistico ma anche abbastanza efficace per segnalare un rientro dall’attuale squilibrio che ci vede, con la Grecia, ai vertici dell’indebitamento nell’area euro.
Sicuramente Salvati, da par suo, potrebbe dare suggerimenti importanti per un’azione di ordinario riordino dei conti (che non ha nulla a che fare con l’odierna abilità del ministro Tremonti a camminare sul filo sospeso). Perciò, modestamente, gli propongo un titolo per il suo prossimo articolo: “Le soluzioni (possibili) per ridurre il debito pubblico”.