Tagli alle tasse un inganno. Aumenti tariffe la realtà

ROMA – Nel 1948 un uomo d’affari della Florida, David Hostleter, si inventò (e brevettò, poiché di uomo d’affari si trattava) il “Tax Freedom Day” (tfd), cioè il giorno dell’anno a partire dal quale il reddito del complesso dei cittadini inizia a superare il livello della pressione fiscale. In parole povere: da quel giorno il cittadino medio comincia a lavorare per se stesso e non più per il fisco. Hostleter per vent’anni calcolò per gli Stati Uniti (ma ci sono differenze tra gli States) la data spartiacque, compito che dal 1971 fu delegato, assieme al brevetto, a una fondazione da lui creata e che, in tempi più recenti, iniziò a stimare anche il tfd di singoli individui. Già, perché, com’è ovvio, il livello dell’imposizione cambia in rapporto al reddito e ad altri fattori (famiglia, tipo di reddito, ecc.). Naturalmente l’idea trovò imitatori in moltissimi paesi.

Bando alle premesse: avete iniziato a preparare fuochi d’artificio, mortaretti, rinfreschi e libagioni? Il festoso giorno della liberazione fiscale sta infatti avvicinandosi: per l’Italia sarà il prossimo 24 giugno. In realtà non c’è gran motivo di far festa: anche nel 2011 la data si è spostata in avanti di un giorno, non tanto per l’arrivo di nuovi balzelli quanto per l’ingordigia del “drago fiscale” che, data un’imposizione progressiva, col passare degli anni aumenta la tassazione per il solo effetto dell’inflazione, cioè di una crescita solo apparente dei redditi, in assenza di una correzione delle aliquote per compensare la corsa dei prezzi. Il tfd italiano ha quindi continuato a spostarsi in avanti anche nell’“era Berlusconi”, a dispetto di slogan come “meno tasse per tutti”. Vent’anni fa la data della liberazione era il 7 giugno, ora ci tocca “faticare” oltre un paio di settimane in più per soddisfare il famelico drago.

L’Associazione artigiani di Mestre, grande fucina di rilevazioni e stime sui redditi e sul fisco, ha calcolato la diversa pressione fiscale subita da un operaio-tipo e da un quadro-tipo: essa è del 34,5 per cento per il primo e del 47,7 per il secondo, cosicché l’operaio ha già festeggiato la sua liberazione il 6 maggio scorso, mentre il quadro deve ancora attendere fine giugno. Men che meno hanno da festeggiare le imprese italiane che, secondo uno studio della Banca Mondiale, sono sottoposte a un peso contributivo pari al 68,6 per cento dei profitti, tra i più alti del mondo (naturalmente si parla delle imprese che non truccano i conti).

Si può aggiungere che mentre il tfd in Italia negli ultimi anni ha scavalcato la primavera ed è penetrato nell’estate, negli Stati Uniti ha fatto consistenti passi indietro (le presidenze di George W. Bush hanno tagliato le tasse, come accade con i veri conservatori che sono anche disposti a ridurre le spese, mentre il Cavaliere parla da conservatore ma agisce da populista): nel 2000 era il 1° maggio mentre nel 2010 è stato anticipato al 9 aprile (tre settimane di libertà guadagnate dal contribuente Usa contro le più di due perse da quello italiano tra il ‘90 e oggi).

Se è vero che i confronti internazionali di questo indicatore (il tfd) non hanno un valore scientifico, hanno comunque un importante valore indicativo. E ci dicono che in proposito il bel paese è tra quelli peggio messi. A fronte dei 174 giorni che il cittadino italiano deve lavorare per l’Erario, in Gran Bretagna ne bastano 150, in Spagna 141, in Australia 112, negli Stati Uniti 99 e in India addirittura “solo” 74. Peggio di noi fa un quartetto di paesi (tra 190 e 200 giorni di pressione fiscale) che però hanno sistemi di welfare molto più progrediti ed efficienti del nostro. Trattasi di Germania, Francia, Svezia e Norvegia.

Anche per un medesimo paese i dati di diverse fonti non sono paragonabili perché si riferiscono ad aggregati diversi, specie per quel che riguarda il prelievo contributivo e parafiscale. Ma quel che conta è la linea di tendenza che ne emerge. E questa, ahimé, nel caso italiano è univoca, quale che sia la fonte: la spremitura aumenta. Secondo l’Ocse, ad esempio, il peso del fisco in Italia è passato dal 23,9 per cento del Pil del 1973 a quasi il 44 per cento del 2010: venti punti percentuali di crescita in meno di quarant’anni, un salasso strepitoso che non è neppure servito a contenere il peso del debito pubblico sul Pil (nel medesimo periodo esso è raddoppiato, passando dal 60 al 120 per cento). Sempre la medesima organizzazione internazionale ha di recente calcolato che la tassazione su un salario medio è in Italia pari al 46,9 per cento, piazzandosi al terzo posto fra i maggiori paesi industrializzati, preceduta solo da quelle francesi e tedesche, dove però i salari lordi sono assai superiori e quindi anche in grado di tollerare una maggiore imposizione. Rispetto alla media Ocse per ogni tipo di famiglia, il prelievo fiscale e parafiscale italiano è superiore di bel l’11 per cento e ciò spiega perché le nostre retribuzioni nette si collichino solo al 22esimo posto nel mondo, superate anche da paesi come la Corea o l’Irlanda.

C’è un altro dato che peggiora ancora, se possibile, la condizione dei tartassati italiani: negli ultimi tempi si è assistito a una rapidissima corsa all’aumento di alcuni prezzi/tariffe che certo non si possono considerare tasse – e quindi non rientrano nelle statistiche fin qui riportate – ma che nella sostanza sono ad esse molto vicine. A questo proposito ci soccorrono ancora una volta le stime dell’associazione degli artigiani mestrini. Nell’ultimo decennio le tariffe dei servizi pubblici sono salite mediamente più dell’inflazione (che è stata di circa il 24 per cento): l’acqua è aumentata del 55,3 per cento (cosa succederebbe con la privatizzazione che pure avrebbe alcune ottime frecce al suo arco?), la “tassa” (che tassa non è) sulla raccolta dei rifiuti è schizzata all’insù del 54 per cento, il costo dei trasporti urbani del 31,4. In tal modo i Comuni hanno parzialmente “compensato” la riduzione delle loro entrate stabilita dalle ultime leggi finanziarie. A maggior ragione, allora, parlare di prezzi e tariffe e non di tasse appare come un approccio formalmente corretto ma anche come un espediente nella sostanza.

Se dopo tutto ciò il 24 giugno avremo ancora voglia di festeggiare, allora siamo proprio degli inguaribili ottimisti!

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