Berlusconi e De Benedetti in Cassazione 10 anni dopo: Repubblica violò privacy e segreto?

Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi
Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi

ROMA – Libertà di stampa e di informazione contro privacy e segreto giudiziario è il groviglio che le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione dovrà dipanare esaminando, 10 anni da quando la causa ha avuto inizio, la vertenza sull’indennizzo chiesto dal Gruppo Mediaset all’Editoriale L’Espresso-Repubblica sul caso Mills. 

Sembra uno di quei western in cui i due avversari continuano a menare colpi nell’aria, ormai stanchi, prossimi a crollare a terra, ma ancora pieni di odio e voglia di combattere. Sullo schermo in questo caso sono ancora una volta Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi, che a 80 anni ancora danno sfogo a una rivalità ormai più che trentennale.
A portarli fino ai vertici della giustizia italiana c’è uno dei tanti articoli pubblicati dal quotidiano la Repubblica, di cui Carlo De Benedetti è il principale azionista, su uno dei tanti episodi giudiziari in cui Berlusconi è stato coinvolto.

La causa però trascende la vertenza tra Repubblica e Mediaset, perché tocca un principio di interesse più generale: se e dove si deve fermare la libertà di stampa. Il tema è di grande importanza, specie in questi tempi in cui la classe politica unita agita davanti ai giornalisti un bavaglio che sa di regolamento di conti.

Dipanare la matassa non è semplice tanto è vero che nei giorni scorsi la terza sezione civile della Cassazione ha trasmesso al Primo Presidente Giorgio Santacroce gli atti della causa per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della Suprema Corte, essendo stato ravvisato sulla complessa materia un possibile contrasto all’interno della giurisprudenza della stessa Corte, sorto dopo la recente sentenza n. 838 di tre mesi fa con cui i supremi giudici avevano del tutto inaspettatamente ristretto le maglie sulla pubblicazione degli atti giudiziari.

Saranno pertanto le Sezioni unite civili della Cassazione a definire l’eventuale risarcimento sull’esistenza o meno della
legittimazione del privato a pretese di indennizzo per la mera pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale già coperti da segreto investigativo, sanzionato penalmente dall’art. 684 del codice penale, a prescindere dal concreto pregiudizio alla sua reputazione, in ragione della natura plurioffensiva del reato.

In ballo c’è non solo la possibile violazione dell’art. 21 della Costituzione, ma anche l’esatta interpretazione del Codice sulla Privacy e dell’art. 114 del codice di procedura penale. Al fine di assicurare ai cittadini una più corretta e completa informazione sui processi penali in corso sarebbe, però, forse opportuno che la materia venisse meglio di nuovo regolamentata all’interno del disegno di legge n. 925-B all’esame della Camera.

Tutto parte dall’indennizzo richiesto 10 anni fa dal Gruppo Mediaset all’Editoriale L’Espresso-Repubblica per la pubblicazione su “la Repubblica” del 23/3/2005 dell’articolo “Ora il dovere della chiarezza” in cui si faceva riferimento a quanto emerso dall’avviso di conclusione delle indagini sulla frode fiscale nella compravendita dei diritti televisivi commessa da parte dei vertici Mediaset e scaturite dalle dichiarazioni dell’avvocato inglese David Mills ai pubblici ministeri milanesi. La Corte d’appello di Roma, confermando il precedente verdetto del tribunale, aveva respinto le pretese risarcitorie avanzate dal gruppo Mediaset. Il testo integrale della decisione n. 6428 del 30/03/2015 (Presidente Carleo, relatore Vincenti) è scaricabile dal sito della Cassazione.

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