Pse licenzia D’Alema da Feps, i “risentimenti personali” per Renzi non sono di sinistra

Pse licenzia D'Alema da Feps, i "risentimenti personali" per Renzi non sono di sinistra
Pse licenzia D’Alema da Feps, i “risentimenti personali” per Renzi non sono di sinistra

ROMA – Massimo D’Alema è stato, o sarà presto, “licenziato” dalla fondazione dei socialisti europei, la Feps, Foundation for european progressive studies di cui era orgogliosamente presidente. La sua permanenza al vertice della fondazione è diventata incompatibile dopo che D’Alema, Bersani e compagni hanno lasciato il Pd per dare vita a Art.1, versione un po’ cupa di Rifondazione comunista.

La sentenza di condanna l’ha pronnunciata, parlando alla tv della Unità, il leader del Partito dei Socialisti Europei, Sergei Stanishev, ex premier bulgaro: per i fuoriusciti dal Pd «non ci può essere spazio» nel Pse; la scissione del Pd è «un errore storico» che mina l’unità delle forze progressiste europee; Massimo D’Alema si è comportato con una «totale mancanza di lealtà» sia nei confronti del Pd che del Pse. Le sue critiche, ha osservato Stanishev sono motivate «principalmente da risentimenti personali». Come sono lontani i tempi in cui i comunisti fucilati nel cortile della Lubjanka ringraziavano il Partito dell’atto di giustizia.

Contro D’Alema c’era stata già maretta ai tempi del Referendum costituzionale. Ora è sempre l’Unità a prevedere la decadenza di D’Alema da presidente della Fondazione europea.

Giuseppe Turani traccia il percorso politico di D’Alema, da giovane emergente a prossimo trombato, in questo articolo pubblicato anche su Uomini & Business.

Tanti anni fa il mio amico Napoleone Colajanni (una testa  straordinaria e un uomo dritto come un fuso) sedeva nel comitato centrale del Pci. Erano ancora i tempi con discorsi fiume e un po’ ripetitivi, forse quel pomeriggio sonnecchiava. Il compagno di banco gli dà allora una gomitata e gli dice: “Sta attento, segui bene, ha preso la parola Massimo D’Alema, è un quadro emergente”. Napoleone, un siciliano spiritosissimo e geniale, lo guarda e gli risponde: “Strano, l’ho sempre visto impegnato in operazioni sommerse”.

Chi ne abbia poi seguito la carriera politica non può non aver avuto la stessa impressione. Esiste un D’Alema che fa cose e vede gente, e esiste un D’Alema che non si sa bene che cosa faccia. Anche se la sua specialità più riconosciuta è sempre stata quella di far fuori quelli che gli stavano davanti: Ochetto, Veltroni, Prodi, e certamente dimentico altri, meno noti.

Memorabile il suo intervento presso Bossi, al quale offri una cena spartana a casa sua (una scatola di sardine?), convincendolo a abbandonare per un po’ Berlusconi.

A leggere le sue imprese sembra di essere dentro un romanzo di Le Carré. Di solito non agisce in prima persona, ma spinge gli altri a fare quello che vuole lui, uno specialista vero nel mascheramento.

E’ anche uno testardo, determinato. Stava alla Normale di Pisa, ma dopo aver lanciato qualche molotov (confessione sua), ha deciso che non lo studio, ma la politica era il suo destino. E’  probabile che già in quei giorni abbia fissato il traguardo più ambizioso: essere il primo comunista a entrare a palazzo Chigi da presidente del Consiglio.

E c’è riuscito, sia pure sloggiando Prodi, che quel posto se lo era guadagnato sconfiggendo Berlusconi alle elezioni e combattendo quasi a mani nude (non aveva soldi).

Su quella breve avventura dalemiana circolano varie storie. Si sostiene, ad esempio, che non sia stato lui a tramare per arrivare a palazzo Chigi, ma uno molto più bravo di lui: e cioè il presidente Cossiga. Servivano le basi italiane (agli americani) per bombardare la ex Jugoslavia. Meglio farlo con un presidente del Consiglio comunista. Così Cossiga si inventa l’ Udeur dell’amico Mastella e questi accettano  di votare per il nuovo governo, a patto che il presidente non sia più Prodi. E quindi Max sale finalmente le scale di palazzo Chigi.

Comunque siano andate le cose, D’Alema, detto Max o anche leader Maximo, era contento. Ancora ce lo ricordiamo in visita alla Casa Bianca con la cartelletta dei compiti in mano, come un bravo scolaro.

Ma dura poco, poco più di cinquecento giorni. Viene sconfitto alle prime elezioni che si tengono e se ne deve andare. Rimane sempre comunque nella zona alta del potere. Fino a quando decide di lasciar perdere la politica italiana e si ritira dal Parlamento. E si concentra sulla sua fondazione culturale (Italiani e Europei). In realtà, ha in testa un obiettivo molto importante: la politica europea. Pensa che il posto adatto a lui sia quello di Alto commissario per la politica estera e la sicurezza comune, mister Pesc, come si usa dire. Insomma, il ministro degli esteri dell’Europa. Nessuno può dirlo, ma probabilmente ritiene che da quella posizione gli sarà poi facile scalare altri gradini verso l’alto. Magari anche presidente europeo.

E’ possibile, ma anche qui nessuno ha notizie certe (ci si muove su un terreno scivoloso e riservato), che durante la sua scalata per la conquista prima del Pd e poi del governo Matteo Renzi gli abbia promesso di appoggiare la sua candidatura a mister Pesc. Infatti D’Alema assiste a tutta l’ascesa di Renzi molto tranquillo, porta a spasso il cane tutte le mattine (accompagnato da due uomini di scorta) e non si immischia.

Fatto il governo, però, Renzi ne combina una delle sue: tira un bidone clamoroso a D’Alema. Non lo propone per la carica di mister Pesc. Anzi, su quella poltrona manda una brava e simpatica signora del Pd, Federica Mogherini, che è stata ministro degli esteri nel suo governo e che ha una lunghissima esperienza internazionale, anche se è solo al suo primo incarico ministeriale.

Immaginabile la furia di D’Alema: non solo gli fanno un bidone, al suo posto mandano quella che lui chiamerebbe “una ragazzetta”, nemmeno un notabile titolato. Un affronto, uno schiaffo.

In privato, Renzi dirà che D’Alema a Bruxelles non lo voleva nessuno. Vero o non vero, Max mette al lavoro la sua rete di conoscenze (molte fatte nelle riunioni internazionali dei giovani comunisti) e riesce a farsi nominare alla testa della Federazione delle fondazioni socialiste europee. Quando gli parlano della politica italiana, con la sua aria sempre un po’ di sufficienza, risponde: “Non so, io sto a Bruxelles a studiare, mi occupo del futuro”.

Per la verità, invece, tutti sanno che quando vede Renzi o la Mogherini in televisione la pressione gli va a 230. Mai, nessuno, lo aveva umiliato così. Il ragazzo di Rignano, prima o poi, dovrà pagare, e con gli interessi.

L’occasione arriva con il referendum del 4 dicembre scorso, la tappa più importante della storia politica di Renzi. D’Alema si schiera decisamente contro, il Pd subisce una piccola scissione (Bersani & Speranza). Renzi perde il referendum, si dimette da presidente del Consiglio e da segretario del partito, carica che poi riconquisterà con il 70 per cento dei voti degli iscritti.

E D’Alema che fa? Per qualche mese sta zitto, manda avanti i suoi colonnelli. E, come al solito, organizza trame: l’obiettivo è sempre il solito. E cioè scalzare Renzi. O comunque impedire che ritorni a palazzo Chigi. Ma forse ha perso un po’ la mano, in questi  suoi tentativi c’è anche il ricorso a un’improbabile candidatura di Romano Prodi, che subito nega di avere interesse alla cosa.

Poi arrivano due annunci in contemporanea. I socialisti europei hanno deciso (a maggioranza) che non può più presiedere la loro fondazione perché è a capo di un partito, Mdp, concorrente dei partiti socialisti italiani, Pd e Psi, e gli daranno il benservito fra pochi giorni, al suo posto metteranno un portoghese.

Lui, di colpo, si riappassiona alla politica italiana e dice che se i suoi elettori glielo chiederanno si ricandiderà. Vuole tornare in parlamento, nella speranza di guidare le truppe di Mdp o degli altri frammenti della sinistra a sinistra del Pd che riuscissero a entrare a Montecitorio. E da lì martellare Renzi, colpevole di avergli rovinato la vita.

In realtà, il suo tempo è finito, e lui stesso lo aveva avvertito quando anni fa decise di ritirarsi dalla politica. Inoltre, un po’ tutti hanno capito quello che Napoleone Colajanni aveva compreso sin dall’inizio: dove c’è D’Alema, c’è una trama.

Ma lui, il leader massimo, non si arrende. E’ convinto di essere il più bravo politico che l’Italia abbia mai avuto. Anche se non ha mai vinto una competizione elettorale in vita sua e se nessuno ricorda sue grandi imprese riformatrici.

Il suo, se vogliamo farla corta, è un caso di narcisismo fra i più gravi. Non c’è altro, la politica è solo un caso.

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