Rai in subbuglio. Non c’è pace in viale Mazzini, meglio a Saxa Rubra, sede della grande truppa giornalistica della Rai. Nasce un nuovo “scandalo” o presunto tale. Riguarda il direttore del Tg1, Gianmarco Chiocci, e l’Usigrai, il maggior sindacato dell’azienda per quanto riguarda l’informazione. Ad essere coinvolta nell’episodio è Gabriella Capparelli, conduttrice di uno dei tanti telegiornali, ma anche membro esecutivo della stessa Usigrai. Immediatamente dopo l’attentato a Trump, si decide di fare uno speciale che avrà la durata di tre ore, forse più.
Una scelta appropriata vista l’importanza della notizia
Si organizza una squadra e si dà il via al programma cha sarà coordinato dal capo redattore Oliviero Bergamini, già corrispondente dagli Stati Uniti e da Perla Di Poppa, spesso a New York come inviata del tg1. Gabriella Capparelli, quella mattina, è la conduttrice del telegiornale, ma nell’equipe che deve occuparsi dell’attentato non c’è il suo nome. Scompare d’incanto? “Si”, dice con forza il sindacato.
Ecco perché si scatena la cagnara che ha naturalmente un retroscena politico: il direttore, accusato di “melonismo” e l’Usigrai che non può nascondere le sue simpatie per la sinistra. Le solite accuse e contro accuse di cui ormai la gente ha piene le tasche. Ma il sindacato (e pure l’azienda) non ne possono fare a meno.
Dov’è lo strappo?
Aver fatto fuori una collega che in quel momento stava conducendo il Tg. “E’ una decisione politica”, tuona il sindacato. “Una vera forma di autoritarismo tipica di alcuni Stati europei”. Viale Mazzini non può tacere e si appella all’articolo 6 del contratto di lavoro, quello che specifica le competenze del direttore. Il quale è libero di affidare un sevizio ai redattori più consoni, in specie se questi (come stavolta) hanno molta conoscenza dei problemi degli Stati Uniti.
Francamente, non vediamo le ragioni di tanto chiasso. Ogni direttore è libero di creare attorno a sé una squadra che lui ritiene all’altezza della situazione. Avviene sempre in qualsiasi testata: si crea un cerchio magico, cioè dei fedelissimi della direzione. “Spoil system”? Niente affatto. Solo una scelta libera affidata a chi conduce una testata così importante ed il tg1 lo è. La verità è che troppo spesso il sindacato si spinge al di là delle proprie competenze. Così, chi appartiene a quella schiera ha molta voce in capitolo perché a volte si può mettere la controparte in situazioni difficili.
E’ anche vero, però, che spesso e volentieri, un sindacalista smette di fare il giornalista. Scrive poco e il suo nome non appare quasi mai (se non mai) in calce ad un articolo. Difficoltà di avere una prosa sciolta? All’interrogativo sarebbe facile dare una risposta se potessimo leggere un pezzo redatto da quel collega. Sul quale si può nutrire ancora qualche dubbio: quello della terzietà, un principio che un giornalista non deve mai dimenticare. Essere al di sopra delle parti.
Come per i magistrati che a volte vengono criticati e presi di mira perché politicizzati. L’importante è che non si impedisca ad un giornalista di fare il proprio lavoro. Se alla direzione non piace un articolo lo può anche pubblicare purché ometta la firma dell’autore. Nel caso in questione, c’è stato autoritarismo? No, visione diversa di intraprendere un lavoro difficile come uno speciale dedicato all’attentato di Trump.
Riecheggia ancora una volta l’accusa di fascismo o antifascismo. Gian Marco Chiocci appartiene (secondo chi lo crocifigge) alla prima schiera. Se invece di inseguire fake news si studiasse il curriculum degli “sleali” ci si accorgerebbe che Chiocci, prima di diventare direttore, è stato un inviato del “Giornale” fondato da Indro Montanelli. Fu lui a scoprire e ad andare sino in fondo al caso di Gianfranco Fini e della “sua” casa di Montecarlo. Come la pensasse l’ex segretario del Msi è inutile ricordarlo. Allora, può un acceso conservatore essere colui che, infine, ha costretto Fini a lasciare la politica?
Insomma, siamo al solito dilemma: di che colore è la Rai? Multicolore a seconda delle circostanze. La decisione di qualsivoglia dirigente non deve comunque calpestare il lavoro di un giornalista, anche se le affinità ideologiche non combaciano.