Genoa e Sampdoria in crisi: derby tra due domeniche

Genoa e Sampdoria, in crisi ormai strutturale, si avvicinano al derby, per molti aspetti prova della verità. Lo scenario è complesso, entrano in gioco personalità molto spinte e anche la sorte, meglio, la mala sorte.

«La jella? Non esiste. Però io ci credo», filosofeggiava quel gran filosofo di Benedetto Croce. Un suo (calcisticamente) illustre concittadino, Ciro Ferrara, tranquillamente sottoscrive. Alla faccia della scaramanzia partenopea, l’ultima mazzata della jella sulla disastrata Sampdoria racconta di un menisco spezzato nel ginocchio sinistro di Maxi Lopez. Un mese e mezzo out, il centravanti argentino: è l’ultimo grano di un rosario di disgrazie che hanno affossato la squadra che, appena un mese e mezzo fa, sgomitava nei quartieri altissimi con Juve e Napoli. Da allora, sei sconfitte di fila, un incubo impronosticabile persino da Nostradamus. Sic transit.

L’altra faccia del calcio della Superba, il Genoa, arranca un punto in classifica sotto i cugini. Quattro i capitomboli consecutivi, tre infilati dal nuovo allenatore, l’ex sampdoriano Gigi Del Neri. Sui blog e i siti dei tifosi rossoblù gli hanno già appiccicato un beffardo nomignolo: baffo moscio, per via dei mustacchi penduli. Una gran fetta dei fan del Genoa fa voti che l’antico nemico tolga le tende, prima del derby che incombe come una mannaia giustiziera. E già si avverte nell’aria il soave, tranquillizzante profumo della “torta” (o “biscotto”), il salvifico espediente calcistico per tirare a campare e, come avrebbe maliziosamente osservato Giulio Andreotti, evitare di tirare prematuramente le cuoia.

Ma com’è che Genova sprofonda miseramente, ramo calcio, peraltro in triste coincidenza di tendenze con il declino pluridecennale di quella che fu la Superba? Perché le due anime della città culla del calcio, capace di affacciarsi estemporaneamente sullo spalto più nobile del pallone nostrano (vent’anni fa, un’altra era: la Prima repubblica esalava l’estremo respiro e la Sampdoria di Paolo Mantovani festeggiava il suo primo scudetto) arrancano penosamente in fondo all’imbuto della classifica? Surclassate persino da realtà più modeste (CataniaAtalanta, Cagliari), sia detto con tutto il rispetto? Non sarà che a Genova si è smarrito, nonché l’elementare buonsenso, la capacità di “leggere” in fondo all’anima, con i suoi vizi e le sue miserie, il fenomeno calcio? Dimostrando una scoraggiante incapacità gestionale, al netto delle professioni di impegno al servizio dell’immancabile ”progetto”, un Sarchiapone buono per tutte le stagioni.

Le due tifoserie ovviamente non coltivano dubbi subliminali. Si rivoltano e basta. E canonicamente reclamano la testa dei rispettivi allenatori. Troppo facile. Le vicende di Genoa e Sampdoria non si assomigliano, nel rispetto di due avventure profondamente diverse, divaricate, interpreti di due anime cittadine che stanno da sempre agli antipodi per formazione storica e culturale, estrazione sociale, orientamento “politico” (in senso lato, eh…). Ne riparleremo.

La Sampdoria da dieci anni è un feudo della famiglia Garrone, petrolieri in marcia con l’azienda di famiglia, la Erg, verso la frontiera delle energie alternative. Dieci anni fa appunto, il patriarca, Riccardo Garrone, con un atto di generosità dissonante dall’animus genovese profondo –alieno da qualunque forma di sovraesposizione pubblica – si fece carico di salvare il club, giunto ad un passo dal naufragio, affossato dalla sciagurata gestione di Enrico Mantovani, eccentrico erede del grande Paolo, il presidente dello scudetto.

Del calcio a “Duccio”, come lo chiamano gli amici, era rimasto appena appena il vaghissimo ricordo di una simpatia giovanile blucerchiata. Eppure, di fronte all’emergenza, Garrone non si tirò indietro. Paradosso sublime, l’impegno dei Garrone si è allargato alla famiglia Mondini (il capostipite, Giampiero ha sposato la sorella di Duccio), di fervente fede genoana, con l’unica eccezione di Monica, consigliere di amministrazione e assidua frequentatrice della tribuna blucerchiata del Ferraris. Si tifa Genoa, si lavora per la Sampdoria. Un caso unico.

Nonostante i massicci investimenti (150 milioni di euro, escluso il prezzo di acquisto della società) la gestione Garrone ha prodotto soltanto una finale (persa) in coppa Italia nel 2009 e un sorprendente quarto posto nel 2010 con Delneri (toh…) in panchina e il duo delle meraviglie CassanoPazzini a ricamare il campo.

Il punto più basso è stato toccato subito dopo, con la rovinosa retrocessione in serie B, figlia di un colossale karakiri, maturato sulla scia del devastante divorzio da Antonio Cassano, esiliato (!) al Milan per colpa degli insulti dispensati dal fumino talento barese nientemeno che al patron in persona, quel Duccio Garrone che lo aveva adottato come un figlio (e sarebbe stato il settimo,,,).

La fulminea palingesi in coda alla via crucis tra i cadetti aveva riacceso gli entusiasmi popolari. Edoardo Garrone, primogenito di Duccio, investito dei pieni poteri dal padre, ormai defilato, aveva annunciato il “progetto”: investimenti strutturali (stadio di proprietà, nuovo centro di allenamento, potenziamento del marchio, rilancio del marketing) e una politica sportiva totalmente indirizzata alla valorizzazione del vivaio: «Dobbiamo crearci in casa i campioni di domani», il claim garroniano.

Con una premessa (risultata rischiosa, alla prova dei fatti). Il processo di ringiovanimento sarebbe iniziato dalla prima squadra. Con un sillogismo altrettanto spericolato: a squadra giovane, allenatore giovane. Ed ecco Ciro Ferrara, giovane (relativamente, ha 45 anni) di anagrafe, giovanissimo in fatto di esperienza specifica, visto che nel suo curriculum figurano una ventina di panchine della Juventus (seguite da un esonero) e una felice parentesi alla guida dell’under 21.

Una scommessa, insomma, quando nel calcio – l’esperienza insegna – l’usato sicuro è in genere la strada maestra. Stramaccioni, si dirà, è la smentita incarnata all’assunto. Ma Strama è, semmai, l’eccezione che conferma la regola. E una neopromossa, comunque, deve mettere in conto il “gap” di esperienza e la crisi di adattamento alla categoria superiore. La radice della crisi della Sampdoria sta qui, al netto degli infortuni a raffica, delle squalifiche – otto in dieci giornate! – e di alcuni marchiani errori arbitrali (Tagliavento col Napoli, rigore inventato. Mazzoleni a Chievo, fallo non rilevato nell’azione del gol-sconfitta. Peruzzo a Parma, diverse valutazioni sui rigori. Doveri a Milano, fallo non rilevato su Berardi e rigore per l’Inter, gol di Guarin con Nagatomo in fuorigioco) che hanno suggerito a Garrone jr di scrivere una dura lettera aperta che la “Gazzetta dello Sport” ha pubblicato. Il cuore della crisi blucerchiata sta in un organico male assortito, che non riesce a miscelare con efficacia giovani e anziani; con troppi centrocampisti e pochi attaccanti, che Ferrara finora (salvo il match con l’Atalanta) si è ostinato a disporre con un 4-3-3 improbabile che deprime le qualità e esalta i difetti dei singoli. Per inesperienza e cocciutaggine, il condottiero Ferrara si ritrova prigioniero di se stesso.

Persino il pazientissimo pubblico della Sampdoria, governativo per vocazione e per educazione, (ammaestrato dagli insegnamenti di Paolo Mantovani, che predicava: “I tifosi sono i primi collaboratori della società”, relegandoli nel recinto del sostegno, al di fuori di qualunque tentazione dirigista), è sceso sul piede di guerra. A occhio e croce, otto tifosi sampdoriani su dieci reclamano la testa di Ferrara e nove su dieci (per non dire tutti, basta scorrere i siti dei tifosi) reclamano il licenziamento del ds Sensibile. Al quale Garrone ha delegato il compito di travasare nel concreto gli indirizzi tecnici della società. La campagna acquisti e vendite, insomma. Conclusa con dieci milioni di sbilancio. Mica bruscolini.  E proprio sul ds si addensano nuvole nere. Confermato a fine ottobre da Garrone «(«il rinnovo del contratto? Una formalità»), le sconfitte contro Cagliari, Inter e Atalanta in otto giorni hanno fatto precipitare le sue quotazioni. Domenica scorsa, il ds ha disertato il Ferraris e Garrone non ha gradito. Neppure lui ha assistito al match con l’Atalanta. Per protesta contro gli errori arbitrali il vicepresidente si è autosospeso ed ha preferito seguire la partita degli Allievi, campioni d’Italia in carica. Filtrano voci di dissapori di Sensibile con l’ad e direttore generale Rinaldo Sagramola, arrivato la scorsa estate al vertice della piramide. Ora è Sagramola a riferire a Garrone e Sensibile, abituato alla massima autonomia, si sente ridimensionato. Lunedì, dopo la sconfitta con l’Atalanta, il vicepresidente esecutivo ha smentito la voce di dimissioni di Sensibile («Una bufala»), ma il feeling perfetto non esiste più. Urge chiarezza, il mercatro di gennaio incombe e la Sampdoria qualcosa dovrà pur fare. Magari in attacco dove srevirebbe un esterno rapido.come Biabiany, frettolosamente ceduto al Parma in estate. Un altro capolavoro alla rovescia di Sensibile. 

Il caso del Genoa è del tutto diverso. Il patron Enrico Preziosi è in sella dal 2003, ha superato la catastrofica retrocessione in serie C, per il caso Genoa-Venezia, protoscandalo alquanto sbiadito alla vampa delle porcherie successive (Moggiopoli e Calcioscommesse). Avellinese trapiantato al nord, tipico esempio di self made man venuto su dal nulla, il “giocattolaio”, così lo definiscono con disprezzo i tifosi rossoblù che gliel’hanno giurata, può vantarsi di aver condotto il Genoa al miglior rendimento medio del secondo dopoguerra. Lo ha riportato in serie A nel 2007, ce l’ha mantenuto con l’acuto formidabile nel 2009. un quarto posto ex aequo con la Fiorentina, che spuntò la qualificazione ai preliminari di Champions League solo grazie al vantaggio negli scontri diretti.

Un record già centrato nel 1990/91 dalla gestione di Aldo Spinelli, col maestro Osvaldo Bagnoli in panca. Era il Genoa di Aguilera, Eranio e Skuhravy, quarto posto in classifica e, la stagione successiva, in semifinale di Coppa Uefa, perduta contro l’Ajax. Un record.

Ma anche un exploit rimasto isolato Tre anni dopo il Vecchio Grifone precipitava in serie B, categoria lungamente frequentata nel secondo dopoguerra. Anche Preziosi ha portato una volta il Genoa in Europa, con scarsa fortuna. La frangia più calda dei tifosi, i ragazzi della gradinata Nord, gli rimprovera l’ondivaga politica sportiva: un mix di brillanti intuizioni tecniche che hanno rivestito (purtroppo brevemente) in rossoblù talenti purissimi (El Shaarawy, Ranocchia, Bonucci, Criscito, Bocchetti) e campioni dimenticati (Milito, Thiago Motta).

E il turbinoso, quasi forsennato attivismo nel rovesciare ad ogni stagione come un guanto l’organico. Stravolgendo il quadro tecnico e tattico e riducendo l’allenatore di turno alla stregua di un cireneo, costretto ad assemblare estemporaneamente calciatori reciprocamente estranei e provenienti da scuole calcistiche remote. Tanto per dire: nell’ultimo girotondo sono una dozzina le facce nuove, una multinazionale dei due mondi sulla quale è un’impresa ricostruire una squadra subito competitiva. Complicazione ulteriore: uscito dall’orbita rossoblù Gian Piero Gasperini, l’eroe eponimo dell’ultima sfolgorante stagione del Genoa (quella del quarto posto), Preziosi non ha più azzeccato un allenatore. In soli due anni, sulla panchina del Vecchio Grifone si sono temporaneamente e tormentosamente accomodati Ballardini, Malesani, Marino, ancora Malesani, De Canio e infine (per ora) Delneri. Alla faccia della continuità. E’ programmare questo?

Nel contingente, dopo aver giurato di non voler mai più provare gli ultimi tormenti di una salvezza acchiappata per i capelli (e grazie ai gol dell’’argentino Palacio), in estate la prima mossa di mercato di Preziosi è stata di vendere Palacio all’Inter. Esattamente come, l’anno avanti, aveva sacrificato il vitello d’oro (El Shaarawy, detto il Faraone) dirottato al Milan dell’amico Galliani, in cambio di Merkel e dieci milioni di euro. Cash, naturalmente.

E’ questa vocazione mercantilistica che fa imbufalire i fan del Genoa, che si divertono, anzi si tormentano a immaginare che po’ po’ di squadrone avrebbe potuto costruire Preziosi se avesse resistito alla tentazione di vendere, vendere e ancora vendere. Il residente replica, piccato e offeso, che non dovrebbero scambiarlo per un Creso del XXI secolo. E che se qualcuno pretende di poter fare meglio di lui, prego s’accomodi.

Preziosi sa benissimo che non ci sono alternative e dunque un po’ ci marcia. Se non che, a forza di spericolate, ancorché redditizie, manovre in uscita, seguite (e pour cause) da precipitose retromarce (Borriello riportato d’urgenza a Genova), il Genoa sta scivolando dolcemente dalla mediocrità alla marginalità. E questo, i tifosi non lo accettano.

Il gioco non vale più la candela e l’ultimo giro di walzer – De Canio licenziato dopo appena otto giornate di campionato – segnala un malessere irrisolto. Tant’è vero che Preziosi non si è fermato al cambio dell’allenatore. Ha licenziato in tronco il ds Stefano Capozucca, suo compagno di viaggio da otto anni, squalificato dalla giustizia sportiva per il caso Genoa-Venezia, riabilitato dalla Cassazione in sede penale. A fine luglio, l’irrequieto presidente aveva rotto platealmente con Pietro Lo Monaco, convocato per assumere la carica di amministratore delegato e direttore generale. E silurato a strettissimo giro di posta per incompatibilità di carattere col presidente. Uno scontro di egocentrici da manuale. Traduzione: Lo Monaco voleva fare mercato e politica societaria con i soldi di Preziosi. Un’eresia. A sostiture Capozuca Preziosi ha chiamato Rino Foschi, già rapida meteora rossoblù nel 2008. Contratto fino al 2014. Durerà? Mah. Intantosi prepara al mercato di gennaio. Delneri reclama esterni d’attacco (Cerci, Padoin), Preziosi pensa a a Zarate separato in casa alla Lazio.

Domenica 11 novembre la Sampdoria va a giocarsi l’avvenire a Palermo, dove troverà Gasperini e un’avversaria quasi più disperata. Uno spareggio. Il Genoa riceve un Napoli avvelenato ma ambiziosissimo. E oltre l’angolo occhieggia il derby. Ferrara e Delneri sono rimasti in sella, il doriano coperto dall’esplicito endorsement di Edoardo Garrone: «Non mi preoccupa una fase negativa. Con Ferrara voglio costruire un progetto. Non è nemmeno da chiedere se rischia. Non mi sono mai posto il problema del suo esonero».

Preziosi tace e dunque acconsente alla salvezza di Delneri. Entrambi implicitamente delegano al derby l’autodafè risolutivo. Vogliamo scommettere come finirà? Date retta: meglio due feriti che un morto.

 

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