ROMA – Italia-Brasile, o Brasile-Italia, profumo di calcio d’antan. Due scuole a confronto, il calcio tutto allegria e della nazionale carioca paulista e il catenaccio all’italiana. Un tempo la sfida s’incastrava in questa rigida cornice. Loro, maestri, talentuosi e sbadati, del samba applicato al pallone, noi gli speculatori emeriti del risultato. Roba da memoires, persino la palla che rotola ha mischiato le carte e i pregi dell’uno si sono miscelati ai difetti dell’altro. Il Brasile, suo malgrado, si è europeizzato, ha messo a profitto le esperienze dei tanti giocolieri verdeoro venuti a giocare in Europa e in Italia.
L’elenco degli ultimi vent’anni è lunghissimo e ogni suiveur lo conosce. L’Italia dopo la vittoria mondiale del 1982, ha percorso umilmente la strada dell’evoluzione tattica e il merito va ascritto principalmente ad Arrigo Sacchi. Al netto del suo integralismo, la lezione sacchiana ha dato l’imprinting ad un calcio italiano propositivo e tatticamente evoluto, che ha cancellato quasi del tutto l’onta del catenaccio. Che ci viene rammentata sempre più raramente e con argomenti via via più fragili e inconsistenti. L’Italia del calcio sarà pure squadra femmina, come teorizzava il sommo Gianni Brera, figlio dei tempi suoi, ma oggi non si limita a subire il gioco altrui, ha un suo sistema di fare calcio e non ha paura di esibirlo.
In termini statistici, non battiamo il Brasile da 31 anni, dalla mitica semifinale del Sartia, Spagna, il 5 luglio 1982, tripletta di Rossi. L’Italia di Bearzot pronta a spiccare il volo verso il titolo Mondiale. Primo confronto diretto al Mondiale del ’38, in Francia. In semifinale, la spunta l’Italia, 2-1, segnano Colaussi e Meazza. Primo scontro al vertice, al Mondiale messicano del 1970.
L’Italia di Valcareggi aveva guadagnato la finalissima dell’Azteca piegando la Germania Ovest di Overath, Netzer e Mueller col favoloso e favoleggiato 4-3 ai supplementari, gol decisivo di Gianni Rivera. Una faticaccia, che ci trascinò alla finale svuotati di energie fisiche e mentali. Il Brasile si annunciava in piena forma, colmo di fuoriclasse affamati di successo. Sandro Mazzola, protagonista quel giorno della storica staffetta con Rivera, molti anni fa mi raccontò un aneddoto che riferisco, pari pari. Il ct Valcareggi, saggio interprete del calcio all’italiana, convocò la squadra alla vigilia della finale e impartì le disposizioni tattiche: “Il due prende l’undici e il quattro prende il dieci”.
All’epoca vigeva la numerazione tradizionale, non la cervellotica numerazione attuale, pescata dal sacchetto della tombola. “Ci guardammo in faccia sbalorditi”, mi rivelò Mazzola. “Il nostro numero 2 era Tarcisio Burgnich, un roccioso terzino destro, implacabile nella marcatura. Il 4 era Bertini, il mediano, ossia il centrocampista più arretrato, a ridosso della difesa. Senonché il loro numero 11 era Rivelino, un formidabile mancino che giostrava a centrocampo, sebbene si permettesse incursioni frequenti per sfruttare il suo formidabile tiro di sinistro. E il numero 10 del Brasile era un certo Pelè, un fuoriclasse assoluto, che in campo sapeva fare tutto ma di ruolo era principalmente un attaccante. Far marcare Pelè da un mediano era un suicidio. E appiccicare un difensore a Rivelino una follia tattica. Ma non ci fu verso. Valcareggi, ostinato, non volle saperne di cambiare. E così ci disponemmo in campo, il giorno della finale”.
L’avvio fu un incubo, i brasiliani giocavano palla a mille all’ora e i nostri non riuscivano ad uscire dalla trequarti di campo. Pelè imperversava nella nostra area di rigore e Rivelino, partendo da lontano, risucchiava Burgnich lontano dalla nostra linea di difesa. Ancora Mazzola: “Ad un certo punto, in campo noi anziani ci guardammo in faccia e decidemmo di cambiare le marcature. Burgnich sarebbe passato su Pelè e Bertini su Rivelino. Appena il pallone uscì dal campo, Burgnich fece per riposizionarsi sulla “Perla nera” ma non fu abbastanza rapido, perché i brasiliani avevano rimesso in gioco il pallone rapidamente e Carlos Alberto, mi pare, lo aveva crossato proprio per la testa di Pelè, che salì in cielo e inzuccò il gol dell’1-0. La foto di quel gol è entrata nella storia. Se la osservate attentamente noterete che Burgnich, sullo stacco imperioso di Pelè, è rimasto mezzo metro più in basso del brasiliano, che lo ha sovrastato. E allunga invano il braccio destro verso l’alto. Ma c’è una ragione, Tarcisio non era riuscito ad applicarsi in tempo in marcatura su Pelè, altrimenti, credetemi, piuttosto di farlo saltare lo avrebbe agguantato per i calzoncini. E forse per qualcos’altro… E Pelè quel gol non lo avrebbe mai segnato”.
Onestà vuole che si dica che quel Brasile era forse la migliore squadra verdeoro della storia, all’altezza del Brasile di Gilmar, Garrincha, Vavà, Didi, Pelè, Dialma e Nilton Santos, che aveva segnato il dominio brasiliano ai Mondiali del 1958 e del 1962. Troppo forte per un’Italia ben dotata di talenti, ma stremata dal tour de force in altitudine. Finì 4-1 per il Brasile (gol di Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto, dopo il provvisorio 1-1 siglato dal gol di Boninsegna), che schierava Felix, Carlos Alberto, Brito, Piazza Everaldo; Gerson, Clodoaldo; Jairzinho, Tostao, Pele, Rivelino. Uno squadrone sublime. L’Italia rispose con Albertosi; Burgnich Facchetti; Bertini Rosato Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva. Se anche Valcareggi avesse azzeccato le marcature dall’inizio, l’esito non sarebbe cambiato.
Dopo un’altra sconfitta, per 2-1, nella finale per il terzo e il quarto posto al Mondiale d’Argentina del 1978, l’Italia si prese una formidabile rivincita al Mundial di Spagna del 1982. Guadagnati i quarti di finale dopo un penoso girone di qualificazione, l’Italia di Enzo Bearzot aveva domato a sorpresa l’Argentina di Maratona. Ma per proseguire il cammino avrebbe dovuto battere anche il Brasile di Zico, Falco, Cerezo, Socrates e compagnia, favorito assoluto per la vittoria finale. Nell’afa dello stadio Sarria di Barcellona, brillò la stella dell’esangue Pablito Rossi. La sua tripletta spianò la strada agli azzurri verso il titolo mondiale, il terzo della nostra storia, conquistato al Bernabeu di Madrid, il 12 luglio 1982, battendo 3-1 la Germania, nostra prediletta vittima sacrificale. Mi raccontò Toninho Cerezo, protagonista in campo di quel Brasile-Italia. “Eravamo convinti di battere l’Italia, anche se la vostra vittoria sugli argentini ci aveva messo la pulce nell’orecchio. Il vostro celebre catenaccio nascondeva in realtà un grande equilibrio di squadra e non si può dire che Bearzot avesse rinunciato ad attaccare perché davanti avevate schierato gente come Antognoni, Conti, Rossi e Graziani. E dietro Gentile riservò a Zico lo stesso trattamento usato con Maratona, con le buone e spesso con le cattive gli impedì di giocare”.
Cerezo fu l’involontario protagonista del primo gol azzurro, al 5′ del primo tempo. Un azzardato passaggi dall’esterno all’interno (una bestemmia, nel calcio) sulla propria tre quarti liberò Rossi che trafisse Valdir Perez, lo stralunato portiere brasiliano. Il Brasile allenato da Telè Santana era quasi all’altezza della squadra del 1970, schierava fuoriclasse assoluti, ma aveva due punti deboli. Il portiere, Valdir Perez, e soprattutto il centravanti, Serginho, assolutamente inadeguato ai massimi livelli. Ma la vittoria dell’Italia fu limpida, frutto di una accorta disposizione tattica che sacrificò certamente parecchio allo spettacolo (del resto affrontare i brasiliani sul loro terreno favorito sarebbe stato un suicidio) per mettere a frutto le nostre doti migliori. Difesa e contropiede, certo. Ma non solo. Uomini come Antognoni, Bruno Conti e lo stesso Rossi sul piano squisitamente tecnico non avevano nulla da imparare dai brasiliani. I quali semmai avrebbero fatto bene a prender lezione dagli azzurri su come ci si difende…
La rivincita verdeoro si materializzò al Mondiale del 1994 negli Stati Uniti. Allo stadio di Pasadena, la finalissima si concluse ai supplementari con uno sbiadito 0-0 che condusse le due squadre ai calci di rigore. Gli errori di Roberto Baggio e Franco Baresi, i nostri due giocatori più celebri e onusti di gloria, condannarono l’Italia guidata da Arrigo Sacchi. Le lacrime del Codino e del capitano del Milan sono un ricordo ancora vivo nella memoria collettiva.
Da quel giorno, mai più le due squadre si sono trovare di fronte in un Mondiale. Il Brasile ha vinto in Corea-Giappone nel 2002 il suo quinto titolo mondiale, l’Italia il suo quarto titolo in Germania nel 2006. È tempo che la sfida ritorni, ai massimi livelli. Appuntamento a Rio de Janeiro, nel 2014.
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