ROMA – “Moriremo per asfissia da tasse”, scrive Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Uccisi, secondo Panebianco, dalle lobby e dal “partito trasversale della spesa”. Uccisi, aggiungiamo noi, perché con le tasse finanziamo e paghiamo anche una ridda di incomprensibili misure che, ogni anno, puntualmente trovano posto nei cosiddetti provvedimenti omnibus, come il famigerato Milleproroghe o l’incredibile e indicibile SalvaRoma o la stessa Legge di Stabilità diventata, lo ha ammesso il governo stesso, una diligenza da assaltare. Ma uccisi anche da “fuoco amico”, come quello targato Pd che ha stoppato la vendita delle municipalizzate perennemente in deficit, o almeno la vendita di parte di queste.
“Il governo – scrive Sergio Rizzo sul Corriere – l’aveva fatto (il Salva Roma) per risolvere la rogna degli 864 milioni di debiti spuntati nei conti di Roma Capitale, ma già sapendo di far partire una diligenza destinata all’assalto generalizzato. E a palazzo Madama ci è stato caricato di tutto. Venti milioni per tappare i buchi del trasporto pubblico calabrese. Ventitré per i treni valdostani. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio. Uno per le scuole di Marsciano, in Umbria. Un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca. Ancora mezzo per la torre anticorsara di Porto Palo. Un milione a Frosinone, tre a Pescara, 25 addirittura a Brindisi. Quindi norme per il Teatro San Carlo di Napoli e la Fenice di Venezia, una minisanatoria per i chioschi sulle spiagge, disposizioni sulle slot machine, sulle isole minori, sulla Croce Rossa, sul terremoto dell’Emilia-Romagna, sui beni sequestrati alla criminalità organizzata. E perfino l’istituzione di una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia all’aeroporto di Milano Malpensa per prevenire le infiltrazioni mafiose nell’Expo 2015”. E questo rischia di essere l’antipasto perché, all’appello, ancora manca il Milleproroghe, quel provvedimento che ogni anno, insieme a babbo Natale, distribuisce doni sotto forma di finanziamenti pubblici a destra e a manca. Provvedimento non a caso noto anche come “legge mancia”.
Non tanto, e non solo quindi, le famigerate lobby che con il loro lavorio difendono interessi di parte. Ma un vero e proprio partito, come lo definisce Panebianco, che per difendere degli interessi talvolta discutibili impediscono che lo status quo cambi. Impediscono cioè riforme e, in generale, il tante volte annunciato taglio della spesa. E, va detto, un partito della spesa che gode di ampio sostegno tra la cosiddetta “gente”, opinione pubblica sempre pronta a premiare o a tollerare mance di Stato grandi e piccole e invece sempre pronta alla mobilitazione contro ogni no alla “spesa acquisita”.
Come ricorda ancora Panebianco, “Peter Praet, capo economista della Bce dice che siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. C’è solo — egli nota — il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli”.
E di questo ipotetico ma vivissimo partito fanno parte anche alcuni molto sedicenti riformisti. Come ad esempio alcuni parlamentari Pd, appartenenti cioè a quello stesso partito guidato ora da Matteo Renzi, il rottamatore che le regole del gioco vorrebbe cambiare. Qualche esempio? Due su tutti: Umberto Marroni e Antonio Saitta.
Al primo va il “merito” di aver stoppato la vendita di quote delle municipalizzate, comprese quelle storicamente in rosso che affondano i bilanci della pubblica amministrazione. E non in rosso per mancanza di clienti, pensiamo all’Acea o all’Atac di Roma, ma in rosso perché mal amministrate, sovraffollate di dipendenti e dirigenti, troppo spesso assunti non per bisogno né tantomeno per meriti, ma per logiche politiche. Sono dei colabrodi inefficienti che perdono soldi senza fornire servizi adeguati. Ma non si possono vendere. Meglio, come è stato appena deciso, aumentare l’Irpef regionale (Zingaretti la alza dello 0,6 per mille) e pagare con questo anziché tagliare. Marino sindaco non sarà da meno, tra due mesi scassinerà il lucchetto che è stato messo alla voglia del Comune di Roma di alzare l’Irpef comunale di un altro 0, 3 per mille.
Al secondo, Saitta, il merito di essere alla guida della crociata contro l’abolizione delle provincie. Non tout court naturalmente, non si può essere contrari al taglio in generale, sarebbe politicamente perdente. Ma si può comodamente essere contrari alla forma che si cerca di dare all’iniziativa ogni volta che questa passa dalla teoria alla pratica.
“In prima linea – scrive Repubblica – va all’attacco il fronte della “resistenza”, rappresentato da tutti quei soggetti – dall’Upi, l’Unione province italiane, alle forze di opposizione, Cinque stelle e Forza Italia in primis – che hanno avversato il provvedimento ieri in Aula. Alla testa degli oppositori della legge c’è Antonio Saitta, presidente dell’Upi, convinto che le norme appena approvate, che trasformano le province in assemblee di sindaci e fanno nascere le città metropolitane, “sono piene di incongruenze e getteranno nel caos il Paese”. Il provvedimento, continua Saitta, “non solo non produrrà risparmi, ma porterà a un aumento certo della spesa pubblica e all’ennesimo prolificare di enti strumentali e agenzie regionali”. E ancora: “Il Governo e il Parlamento – attacca – diranno che hanno abolito le province, ma la verità è che non solo sono state mantenute, ma è stato fatto un gran pasticcio che ci preoccupa. Perché con questo pasticcio sono a rischio servizi essenziali per i cittadini”. Nel mirino del presidente dell’Upi ci sono anche le norme contenute nella legge di stabilità, che impediscono le elezioni delle 52 Province i cui mandati scadono a primavera e delle 20 commissariate nel 2012. Viene leso “un diritto inalienabile di cittadinanza, l’Upi presenterà ricorso e il primo, da privato cittadino, sarà il mio”, ha detto Saitta. E ancora: “Vietando ai cittadini di votare chi li amministrerà la legge di stabilità lede il diritto di voto libero, segreto, e non limitabile, sancito dall’articolo 48 della Costituzione”.
Scusi Renzi, vien da chiedere, Marroni e Saitta fanno parte del suo partito, lo sa? Che vogliamo fare?
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