ROMA – Non prendere, rinunciare ai Fondi Europei, tanto li buttiamo nell’immondizia. In cambio farsi fare lo sconto dall’Europa su quanto, come ogni altro Stato, all’Europa versiamo. Incredibile e clamoroso: potrebbe essere un affare. L’Italia, come ogni stato dell’Unione Europea, versa ogni anno a questa una discreta quantità di fondi e, da questa, riceve ogni anno un’altrettanto discreta quantità di denari. Purtroppo però, quando i fondi tornano nel nostro Paese, sono impantanati in lacci e laccetti, vincoli e limitazioni e spesso, anche per incompetenza degli amministratori nostrani, non riescono ad essere spesi.
Perché allora non chiedere all’Europa di scontare quello che l’Italia deve avere da quello che l’Italia deve dare? Insomma: rinunciare a dieci miliardi di Fondi europei destinati all’Italia, non prenderli proprio. E farsi fare lo sconto dall’Europa su quelli che l’Italia versa all’Europa. Anche uno sconto di sei miliardi sarebbe un affare. Anche se la la matematica dice che dieci non prendi, sei non dai fa meno quattro, un danno di quattro, per noi non sarebbe un danno. Perché? Perché i dieci che incassiamo li buttiamo nell’immondizia. Nell’immondizia dell’inefficienza, della clientela, dello spreco, dell’inutilità, perfino del malaffare. Per cui da noi la matematica fa: meno dieci buttati nell’immondizia, sei non versati all’Europa uguale guadagno di sei.
Una proposta, forse solo un’idea certo originale che arriva da Roberto Perotti, coordinatore di un gruppo di lavoro della segreteria di Matteo Renzi sulla spesa pubblica.
“Nel 2012 – scrive sul Sole24Ore Perotti – l’Italia ha pagato 16 miliardi alla Unione europea e ne ha ricevuti 11, in maggioranza fondi per la coesione e per l’agricoltura. Non c’è niente di male in questo: in passato l’Italia è stata beneficiaria netta, ora i fondi affluiscono soprattutto ai nuovi entrati, come la Polonia. Il problema è che molti dei soldi che riceviamo dalla Ue non servono a niente, anzi sono dannosi; faremmo molto meglio a rinunziarvi e chiedere uno sconto equivalente sui contributi che versiamo alla Ue. Potremmo usare questi risparmi per ridurre il cuneo fiscale di almeno 5-6 miliardi all’anno”.
Come sostiene Perotti nessuno ci rimetterebbe così facendo. Non ci rimetterebbe l’Europa che, a fronte delle minori entrate, avrebbe minori uscite. E non ci rimetterebbe l’Italia che potrebbe utilizzare la stessa quantità di denaro che altrimenti arriverebbe via Bruxelles in modo certo più semplice e forse più efficace. Il problema dei fondi europei è infatti, paradossalmente, quello della difficoltà nello spenderli. Bloccati come sono da vincoli, da scarsa capacità o da piccoli interessi di chi è chiamato ad amministrarli. E, come sottolinea lo stesso Perotti, accade non raramente che anche la criminalità organizzata finisca per mettere le mani su almeno una parte di questi soldi.
“Il nuovo programma settennale per il 2014-20 prevede che l’Italia riceverà dalla Ue 33 miliardi di fondi di coesione – continua Perotti -, di cui 22 miliardi per sole 5 regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, e Sicilia. Questi fondi vanno poi cofinanziati per un pari ammontare dallo Stato italiano. In totale almeno 70 miliardi, circa 10 all’anno. Questo fiume di denaro porta con sé una gigantesca macchina amministrativa. Si comincia con le migliaia di pagine di piani nazionali e regionali, e poi di sottopiani per ogni obiettivo: questa volta la Ue ha deciso che saranno tredici. Non che questi piani siano necessari, perché un qualunque assessore regionale un po’ capace può far passare qualsiasi iniziativa sotto l’etichetta di ‘innovazione e competitività’ oppure ‘occupazione’.
Questo spiega le migliaia di bandi, programmi, iniziative, corsi di formazione spesso per pochi milioni o poche centinaia di migliaia di euro; e le decine di migliaia di beneficiari, dal parrucchiere che ‘forma’ una estetista al cinema che prende sovvenzioni per digitalizzarsi. In tutto questo vengono coinvolti parecchi ministeri (almeno Economia, Sviluppo Economico, Infrastrutture, Lavoro, Politiche agricole, Affari regionali) e molte direzioni all’interno di ogni ministero. Almeno la metà degli assessorati regionali ha a che fare in qualche modo con i fondi europei. Poi vi sono le migliaia di enti e agenzie nazionali e regionali per la formazione, il lavoro, l’internazionalizzazione delle imprese, e via dicendo. Certe regioni hanno persino diversi fondi pubblici per start-up, ognuno con pochi milioni di euro, e ognuno gestito da un assessorato diverso. Così come vi sono regioni con decine di agenzie o aziende per lo sviluppo, una struttura di partecipazioni incrociate così aggrovigliata che è praticamente impossibile da dipanare. Alla fine, migliaia di persone campano nel sottobosco creato da questo fiume di denaro e queste migliaia di enti. E purtroppo ci campano anche la corruzione e la malavita. Nessuno ha più il controllo di questo meccanismo. (…)
Abbiamo bisogno di tutti questi soldi? Se fossero così urgenti e necessari, sapremmo come spenderli subito. E invece sappiamo bene che non è così. (…) Non c’è nessun bisogno – continua Perotti – di dare i soldi alla Ue per poi farseli ridare con lacci e lacciuoli (per quanto facilmente aggirabili) e quindi rigirarli alle regioni, che spesso non sanno cosa farsene. Dei 10 miliardi all’anno che complessivamente ci verrebbe a costare questa macchina infernale, potremmo utilizzarne diciamo una media di 4 e risparmiarne 6, da utilizzare per contribuire a ridurre il cuneo fiscale, magari con un trattamento di favore per le cinque regioni di cui sopra”. L’idea di Perotti, come specifica il quotidiano di Confindustria, è un’idea assolutamente personale non coordinata in alcun modo con la presidenza del consiglio e, anzi, più che un’idea è forse una provocazione. E’ difficile infatti immaginare che l’Ue possa sposare una simile proposta anche se, ad onor del vero, non priva di logica, specie in un Paese come il nostro dove i fondi europei finiscono col finanziare di tutto, dalla sagra della salsiccia a qualsivoglia amenità, e dove poi mancano invece i soldi per abbassare le tasse, mettere in regola i conti di alcune città, finanziare la ricerca e via dicendo.