ROMA – Lavoratori pubblici imboscati sotto la legge: dal 15 al 25 per cento del personale. Netturbini che non possono spazzare, autisti che non possono guidare, insieme ad infermieri che non possono “movimentare carichi pesanti e pazienti” e medici inabili al lavoro notturno. E’ l’Italia degli imboscati, dei lavoratori del pubblico impiego che più che lavorare per il pubblico, il pubblico sembrano voler mungere. Tutto legale, va detto, nessuna irregolarità formale ma solo, si fa per dire, l’abuso di un diritto che si trasforma in altro creando disservizi oltre che costi. Va peggio al Sud, dove gli imboscati vantano le fila più numerose, ma da questa pessima abitudine non è esente nemmeno il virtuoso Nord.
“L’Italia degli imboscati non ammette eccezioni – scrive Carlo Picozza su Repubblica – Da Nord a Sud, anche se con percentuali diverse, c’è sempre qualcuno che approfitta grazie a un certificato medico o alla forzatura di una norma sacrosanta per alleggerire il suo lavoro. Nel settore pubblico la legge 104, che offre una serie di benefici ai disabili gravi e ai loro parenti, è utilizzata dal 13,5% dei dipendenti contro il 3,3% del settore privato. Nella scuola le “inidoneità parziali” non sono eccezioni, così come nella sanità”.
“Sbaglierebbe chi volesse vedere in questo fenomeno comportamenti palesemente illegittimi – aggiunge Marco Ruffolo che sullo stesso quotidiano ha curato un’inchiesta sul fenomeno -. Non stiamo parlando dei furbetti che timbrano e se ne vanno a spasso, degli assenteisti cronici, o di altri piccoli truffatori del pubblico impiego. Stiamo raccontando una storia di formale legalità, non per questo meno scandalosa: la storia di chi, soprattutto nel settore pubblico, riesce senza fondate motivazioni a evitare, per “inidoneità parziale” o per abuso della legge 104, il lavoro per il quale è stato assunto (un lavoro spesso duro, faticoso, delicato) facendosi trasferire tra le scartoffie di un ufficio, lontano dalla strada, lontano dai cittadini. Una premessa è d’obbligo: andare incontro a malattie o infortuni parzialmente invalidanti o dover assistere parenti disabili sono sacrosante e indiscutibili ragioni per cambiare mansione, per evitare i lavori più gravosi, o più semplicemente per avere permessi e congedi. Ma qui stiamo parlando dell’abuso che si fa di questi diritti, grazie a migliaia di sconsiderate autorizzazioni rilasciate dalle commissioni mediche”.
Un abuso che porta con se almeno due conseguenze, entrambe negative. Da una parte la creazione di vuoti negli organici che dovrebbero garantire servizi, anche essenziali come quello negli ospedali, caricando di lavoro extra chi ha la sventura di essere abile al lavoro; e dall’altra quella di penalizzare chi tra i lavoratori avrebbe veramente bisogno di assistenza. Senza tener conto, perché qui si uscirebbe dall’insieme degli imboscati per entrare nel terreno della truffa, di quei medici che hanno prodotto autorizzazioni non solo allegre ma puramente false. Il numero maggiore di imboscati lo si trova, naturalmente, nel comparto sanità. Che poi è la maggiore voce di spesa pubblica. Il 12% dei dipendenti di questa, circa 80 mila persone, tanto per dare qualche numero, è riuscito a farsi riconoscere una serie di limitazioni alla propria idoneità lavorativa, con punte del 24% tra gli operatori socio-sanitari, seguiti dal 15% degli infermieri. La metà di quegli 80 mila – dice una ricerca a campione targata Cergas-Bocconi – ha diritto a non sollevare i pazienti e a non trasportare carichi troppo pesanti (un lavoro burocraticamente chiamato “movimentazione di carichi e pazienti”).
Un altro 13 per cento non può lavorare in piedi, il 12 non lo può fare di notte. Il resto viene esentato da una lunghissima serie di operazioni: essere esposti a videoterminali, a rischi biologici, chimici e allergie, stare a contatto con i pazienti, fare lavori che producono stress, operare in taluni reparti, e così via. A Roma, analizzando le diverse realtà, 16 addetti su cento del Servizio sanitario pubblico, uno su sette, il doppio della media nazionale, è esonerato da guardie, turni e contatti con i malati. Al San Camillo, l’ospedale più grande della capitale, su 2mila 800 infermieri (3mila 800 dipendenti in tutto) sfiorano quota 500 gli esonerati dal lavoro per il quale sono stati assunti. Scendendo verso il Meridione, nell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, su 1.178 dipendenti, 652 (oltre la metà) lavorano a regime ridotto.
Ottanta psicologi della sanità regionale – come più volte denunciato dal commissario straordinario Massimo Scura -, invece di aiutare i pazienti, sono finiti negli uffici amministrativi. Mentre a Palermo sono tuttora circa 400 gli autisti che non possono guidare per inidoneità temporanea. Ma gli imboscati non sono solo nella sanità e non solo al Sud. A Palermo, è tanto vero quanto incredibile, 270 netturbini hanno potuto esibire un certificato medico che vieta loro di spazzare le strade; ma c’è anche il caso di Como dove gli operai assunti dal Comune sono diventati di colpo impiegati e quelli di Pescara, con 50 infermieri e operatori socio-sanitari destinati a mansioni esclusivamente amministrative, e di Firenze, dove il 40 per cento dei vigili urbani passa più tempo in ufficio che in strada. Colpa dei lavoratori che se ne approfittano e che in mala fede abusano di un diritto.
E colpa anche di tutti quei medici e di quel sistema compiacente che ha consentito simili abusi senza battere ciglio o quasi. Ma colpa anche dei sindacati che troppo spesso ormai si trovano a difendere più gli abusi dei lavoratori contrattualizzati che gli abusi sui lavoratori precari. Un esempio? Ancora il caso del San Camillo di Roma dove un tentativo di sanare la situazione fu fatto con il contratto 1998-2001: promozioni solo per chi era impegnato in prima linea. Il tentativo fallì e gli scatti arrivarono per tutti anche grazie al pressing di politici e, appunto, sindacati. In busta paga 200 mila lire in più di media e la beffa di dover appaltare all’esterno dei lavori “sporchi”. Oggi i servizi di assistenza diretta affidati alle cooperative sociali, ai cococo e alle partite Iva gravano sul Servizio sanitario del Lazio per oltre 250 milioni di euro. Una cifra enorme che ha vanificato il blocco del turnover imposto dal Piano di rientro dal deficit sanitario.