Posto fisso: solo 15% lo trova, solo 46% lo sogna e addio 56% dei lavori

di Riccardo Galli
Pubblicato il 27 Ottobre 2014 - 12:59 OLTRE 6 MESI FA
Foto darchivio

Foto darchivio

ROMA – “Il posto fisso non esiste più”, lo ha sottolineato in diretta polemica con i “crociati” dell’articolo 18, il premier Matteo Renzi dal palco della Leopolda. Una realtà che però, al netto delle dichiarazione dei politici e della battaglie dei sindacalisti, i lavoratori italiani conoscono già sin troppo bene. Appena un nuovo contratto su sei è infatti a tempo indeterminato, mentre il sogno del posto fisso ha abbandonato le notti dei giovani italiani che, in buona parte, hanno smesso persino di desiderarlo. Sono ormai una minoranza, il 46%, quelli che oggi cercano un impiego per la vita e, se questo non bastasse, più della metà dei lavori attuali (il 56%) sembra destinato a sparire nel prossimo futuro. Giornalista compreso.

“Già oggi – scrive Paolo Baroni su La Stampa – ogni 100 nuovi contratti di lavoro che vengono attivati appena 15,2 sono a tempo indeterminato, in pratica uno su sei. Tutto il resto è precario, flessibile, a termine”. Nello studio pubblicato dal quotidiano torinese, anche altri elementi interessanti e, per alcuni versi, preoccupanti.

Se da un lato non stupisce infatti che i nuovi contratti a tempo indeterminato siano una rarità, alzi la mano chi conosce più under 35 con contratti a tempo indeterminato che precari, meno scontato è il dato relativo alle aspirazioni di chi nel mondo del lavoro si affaccia.

Secondo l’indagine di Coldiretti/Ixé, meno della metà dei giovani italiani (46%) ambisce ad avere un posto fisso, contro il 53% dell’anno passato. Dato che, letto al ‘contrario’, rivela come la maggioranza dei giovani italiani non voglia o abbia smesso persino di sperare nel famoso e famigerato posto fisso. Quasi un giovane su tre (31%) vorrebbe poi lavorare autonomamente, e ben il 51% sarebbe pronto anche ad espatriare per trovare un lavoro, mentre il 64% è disponibile a cambiare città. Segno che, almeno sulla carta, la flessibilità non spaventa poi tanto o, con meno ottimismo, che a questa ci si è ormai rassegnati.

Altro dato interessante, per non dire preoccupante, è quello che riguarda il destino dei lavori che conosciamo oggi. Di qui al 2022 infatti, secondo l’indagine ‘Career Cast’, scompariranno taglialegna e tornitori, e poi giornalisti, tipografi, hostess, agenti di viaggio, postini e letturisti dei contatori. E ancor peggio andrà secondo lo scenario ipotizzato dalla London School of Economics secondo cui, in Italia, ben il 56% dei lavori di oggi rischia di sparire entro vent’anni.

Non serve però allontanarsi dal presente per vedere che il posto fisso se non già estinto è almeno seriamente minacciato. Il grosso dei nuovi contratti, ben il 69,7% nel secondo trimestre del 2014 secondo i dati raccolti dal ministero del Lavoro, è rappresentato dalla sommatoria di contratti di formazione, contratti di inserimento, interinali, intermittenti e contratti di agenzia. Poi c’è un 6,2% di contratti a termine, un 5,8% di contratti di apprendistato ed infine un 3,1% di contratti di collaborazione. Su 2.651.648 nuovi rapporti di lavoro, dunque, solo 403.036 (227mila maschi e 176mila femmine) sono a tempo indeterminato.

Fin qui, i freddi numeri e, come è noto, con i numeri non si discute. Si potrebbe e dovrebbe invece discutere di come queste cifre si traducano nella realtà. Assodato che il posto fisso non è probabilmente destinato a sparire come ha sintetizzato il premier Renzi, ma a diventare una rara eccezione sì, importante è capire come la flessibilità viene e verrà applicata. Perché se è vero che questa rappresenta il futuro del mercato del lavoro, è altrettanto vero che questa può essere un’occasione o una condanna. Anche e soprattutto a seconda di come il mercato del lavoro, l’ingresso e l’uscita da questo e gli strumenti che accompagnano il lavoratore tra un impiego e l’altro sono organizzati. Dati e realtà dei numeri alla mano sarebbe quindi probabilmente ora di discutere più che di come e se tutelare i famosi posti fissi, di come organizzare la materia lavoro per far sì che l’ormai inevitabile flessibilità non continui a tradursi nella vita dei lavoratori come una sorta di sfruttamento legalizzato ma, al contrario, provi a diventare un’opportunità da cogliere.