ROMA –Da una imbarcazione che portava le insegne della Guardia Costiera libica hanno sparato ad una nave della Guardia Costiera italiana. Chi c’era a bordo della motovedetta libica? Tre ipotesi possibili, una peggio dell’altra.
La prima: i mercanti di schiavi, i traghettatori di carne umana, insomma le bande criminali che organizzano il traffico di migranti si sono impadroniti di mezzi che furono della Marina libica e si sono fatti una loro piccola flotta armata. E la usano contro gli italiani e chiunque ostacoli il loro traffico o diminuisca i profitti ad esempio sequestrando barconi.
La seconda: quelli che hanno sparato erano uomini inquadrati nelle forze combattenti del governo di Tripoli, insomma il governo islamista (anche se non proprio l’Isis) che contende la Libia all’altro governo, quello laico (si fa per dire) di Tobruk.
La terza: erano uomini armati, era nave del governo di Tobruk.
Nel primo caso vuol dire che ci sparano addosso perché sanno che non rispondiamo al fuoco. E vuol dire che se non ci sbrighiamo a affondare in porto baroni e altro, flotta mercantile militare delle bande armate e criminali ci ritroviamo con il Mediterraneo, quello sotto casa, come il mar di Somalia dei pirati.
Nel secondo e terzo caso vuol dire che l’una o l’altra fazione cerca l’incidente militare che annulli ogni possibilità di negoziato e sanzioni la spartizione della Libia in tronconi impegnati in una lunga guerra civile e di reciproco saccheggio.
In tutti e tre i casi un memento all’Italia soprattutto che, come scrive sul Corriere della Sera Franco Venturini, “una operazione di peace keeping in Libia con l’accordo dell’Onu e dopo eventuale successo negoziale, richiederebbe da sessanta a settantamila uomini pronti a combattere e a morire, non soltanto ad istruire e assistere”.
L’alternativa di fronte a una missione militare inconcepibile per gli italiani? La prosecuzione a pieno e crescente ritmo della fabbrica della migrazione, una Libia criminale che criminalmente trasporta migranti-schiavi attraverso il mare. Gli ottimisti ne aspettano 250mila, il doppio chi crede che a mettersi in moto sarà un ‘bacino’ più ampio. Sono i numeri dei migranti pronti a partire dalle coste libiche secondo le stime date dal Corriere della Sera ma condivise più o meno da tutti. Una massa umana che sa più di esodo che di altro e che l’Italia è sostanzialmente impreparata ad affrontare, al punto che ormai comincia a mancare anche il semplice luogo fisico dove ricoverare chi arriva, tanto che il Viminale stesso ha sentito la necessità di lanciare l’allarme ordinando di trovare subito 6.500 posti, anche con “provvedimenti di occupazione d’urgenza e requisizione”.
Le Regioni e i Comuni dove si vota a maggio non ne vogliono sapere di accogliere nuovi migranti, si comincia a parlare al Viminale di tendopoli nelle caserme, riappare il fantasma di quello che fu lo stadio di bari per gli albanesi.
Per avere un’idea di quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi basta dare un’occhiata ai numeri degli scorsi anni: nel 2014 (anno record) arrivarono sulle nostre coste poco meno di 170mila uomini; 43mila l’anno prima e 13mila nel 2012. La differenza è del tutto auto evidente e, con lei, la necessità di prepararsi per affrontare i mesi che stanno arrivando, e cioè i mesi estivi in cui quasi fisiologicamente, in funzione delle condizioni meteo, il flusso migratorio dal nordafrica aumenta.
Se però da una parte è lampante la necessità di trovare una soluzione per ‘digerire’ l’impatto di centinaia di migliaia di disperati in arrivo, dall’altra non è più solo questa la strada da seguire. Se da una parte infatti la coscienza umana, al netto degli strepiti leghisti o di altri, ci impone di salvare chi sta per affogare in mezzo al Mediterraneo e di dargli un tetto e un pezzo di pane (per quanto di pessima qualità siano come dimostrano i cosiddetti centri di accoglienza); dall’altro i numeri rendono evidente che l’accoglienza non è più sufficiente ed è giunto il momento, con tutti le criticità ed i rischi che ne conseguono, di affrontare il ‘problema’ a monte, e cioè in Libia.
“Si dice che siano ventimila i miliziani libici che gestiscono i campi di coloro che attendono il barcone di turno – scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera -. Gestiscono, cioè torturano, violentano, estorcono denaro dalle famiglie d’origine e poi consegnano i disgraziati agli scafisti. Non sarebbe impossibile colpire la loro logistica, ma chi ci coprirebbe le spalle? Quale governo libico legittimerebbe la nostra azione? Come potremmo evitare di unire tante altre bande e tante altre milizie contro lo straniero, per di più ex colonizzatore?”
Queste le ragioni che impongono e che rendono delicatissimo un intervento oltre mare. Ragioni cui si aggiunge, da una parte, il moltiplicarsi delle guerre (dal Corno d’Africa allo Yemen, dalla Siria più che mai in fiamme all’Iraq) e, dall’altra, il costo umano di un intervento militare. Come spiega lo stesso Venturini, un corpo di spedizione in Libia dovrebbe contare su circa 60/70 mila uomini. Certo non tutti italiani visto che se non in ambito Onu o almeno Nato non ci si muove, ma è verosimile che il comando di un’operazione nella nostra ex colonia, così come il grosso del contingente, dovrebbe essere italiano. Cosa che comporterebbe, altrettanto verosimilmente, morti. Morti italiani che il nostro Paese, anche quando urla contro gli immigrati e giura di volerli affondare nel Mediterraneo, è assolutamente incapace a digerire. Vi immaginate il commento di Salvini al primo parà veneto morto in un’operazione alla periferia di Tripoli? Ecco, è semplice.
Oggi è il ministero dell’Interno a lanciare l’allarme, a chiedere alle regioni e alle città di fare la loro parte incontrando non poche resistenze, specie la dove tra poche settimane si voterà. Ma il grosso della partita si gioca in realtà altrove: ad Algeri, dove è cominciato il secondo round di incontri tra parlamentari libici di parti opposte, e a Rabat, dove domani si tornerà al più importante tavolo con il mediatore Onu Bernardino León che spera di strappare un accordo per pacificare il paese che, dalla deposizione di Gheddafi, vive in una sostanziale guerra civile.