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Migranti, la bomba in casa: la battaglia di Mineo

di Gianluca Pace |23 Ottobre 2013 15:57

“La battaglia di Mineo”

CATANIA – “La battaglia di Mineo”. Potrebbe essere ricordata così la giornata vissuta ieri dal centro di accoglienza per migranti in provincia di Catania. Una giornata all’insegna della violenza esplosa tra gli immigrati, in cui le campagne intorno al centro sono state teatro di una vera e propria battaglia, con tanto di cittadini italiani costretti a barricarsi, auto assaltate, finestrini rotti e vetrine sfondate. Una giornata drammatica per i protagonisti ma più o meno completamente ignorata dal resto del Paese.

La tragedia di Lampedusa è cosa nota. L’odissea dei migranti non finisce però nell’isola più a sud d’Italia, ma continua nei centri d’accoglienza, come quello di Mineo, teatro di una vera e propria battaglia. Ieri (22 ottobre), nell’ignoranza diffusa e nell’indifferenza generale, il centro di accoglienza in provincia di Catania ha vissuto una giornata di guerriglia, con i migranti esasperati che hanno forzato i cancelli per darsi alla fuga mettendo a ferro e fuoco i dintorni. Esasperati dai tempi biblici necessari per l’espletamento delle pratiche ed esasperati dalla volontà di non far conoscere le proprie generalità. Una volta identificati, i migranti, sono infatti “bloccati” nel nostro Paese ma, la volontà di molti, sarebbe quella di non rimanere in Italia, ma di proseguire al contrario la loro fuga verso altre destinazioni, come la Germania.

“Al Cara di Mineo – racconta Michela Giuffrida su Repubblica.it – in mattinata era scattato il piano di messa in sicurezza. Sospesi tutti i servizi, personale richiamato, campo paralizzato. Ed è stata valutata anche l’ipotesi di evacuazione. La polizia ha chiesto rinforzi perché i blindati che controllano strade e campagne del territorio di Mineo non sono bastati. Circa mille migranti hanno bloccato strade, incendiato campagne, danneggiato auto, scagliato sassi contro uomini e cose. Una troupe televisiva, assieme ai poliziotti di una volante che la scortava, se l’è vista brutta. E dentro i Cara sono stati danneggiati un furgone e un’ambulanza della Croce rossa. Bloccata per ore la Catania-Gela, grossa arteria viaria dal traffico di una autostrada. Bloccata anche la provinciale che porta al centro città. Mineo è stata isolata. Una stazione di servizio è stata assediata, un pullman di linea è stato preso a sassate”.

Parole ancora più chiare, se possibile, quelle scelta dal Corriere della Sera: “Le forze dell’ordine hanno sparato dei lacrimogeni per disperdere gli extracomunitari. Due operatori e un giornalista, che erano con loro, vengono tenuti a distanza di sicurezza perché, spiegano gli investigatori, gli aggressori attuano attacchi da guerriglia: si nascondono a piccoli gruppi e colpiscono senza preavviso”.

Una vera e propria battaglia dunque, ma una battaglia che non ha meritato la stessa attenzione che meritano gli sbarchi di Lampedusa. Eppure l’una è conseguenza dell’altra, due capitoli dello stesso dramma. Il dramma che porta migliaia di persone a rischiare la vita per sfuggire a guerre, fame e povertà. E un dramma che una volta raggiunta la tanto agognata Europa non trova affatto soluzione, anzi. I migranti che arrivano nel nostro Paese infatti, una volta “trovati”, vengono smistati nei centri di accoglienza, elegante locuzione che significa in realtà centri di detenzione, carceri. Lì dentro vengono curati e sfamati, vero, ma sono, come nel caso di Mineo, rinchiusi in stanze troppo piccole e troppo affollate. Con strutture che spesso ospitano il doppio o quasi di persone rispetto alla capienza ufficiale. Le difficili condizioni interne, l’igiene e la privacy che latitano sono conseguenze non difficili da immaginare. E il tempo che questi migranti passano in questo limbo non sono certo brevi, spesso mesi.

 

Mesi in cui la tensione monta e, non di rado, sfocia in violenza, rivolte, tentativi più o meno riusciti di fuga. Colpa delle autorità che non riescono a gestire l’emergenza come civiltà vorrebbe e, in un certo senso, colpa dei migranti stessi. Migranti che infatti, in molti casi, cercano di sottrarsi in tutti i modi all’identificazione, mentendo o non fornendo i propri dati. E questo perché, finché sono anonimi, possono sperare e programmare di raggiungere domani un altro paese europeo, solitamente la Germania, dove cercare di costruirsi un futuro migliore. Perso l’anonimato però, ed una volta identificati in Italia, questa possibilità viene loro preclusa perché, avuto un nome, è il Paese dove si trovano, in questo caso l’Italia, a dover decidere cosa dovrà essere di loro, rimpatrio o asilo politico. Ed una volta maturata questa decisione non potranno più tentare la fortuna altrove, sarà cioè per loro sbarrata la strada che porta al Nord.

 

L’Italia, ormai da qualche tempo, non è più la meta ma più una tappa di questi viaggi della disperazione. Una tappa che si trasforma in teatro di tragedie, come quella dei 300 e più naufraghi affogati un mese fa a Lampedusa, ma una tappa che diviene anche, seppur con meno clamore, guerra vera e propria.

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