Due mesi e mezzo per ogni ucciso: il secondo tempo della strage in Norvegia

Anders Breivik

OSLO – Anders Behring Breivik, autore del massacro di Utoya, sconterà al massimo 21 anni di carcere, 252 mesi di reclusione per 93 morti, poco meno di tre mesi per ogni ragazzo ucciso a sangue freddo. La legge norvegese prevede questo lasso di tempo come pena massima di reclusione. La pena capitale è stata infatti abolita nel paese scandinavo nel 1902 per i crimini ordinari e, definitivamente abrogata, nel 1979. L’ultima esecuzione risale al 1948, tre anni dopo quella di Vidkun Quisling, capo del governo collaborazionista sotto l’occupazione nazista, fucilato per alto tradimento. Dopo la pena capitale anche l’ergastolo è stato poi eliminato dal diritto norvegese. Ventuno anni, quindi, il tempo che con ogni probabilità il “mostro di Utoya” trascorrerà in prigione, secondo molti troppo poco.

La Norvegia è un modello di democrazia e di felicità, per quanto possibile essa sia. Redditi alti, poca disoccupazione, pochissima criminalità, carceri confortevoli che puntano, efficacemente, non sulla repressione ma sulla reintegrazione dei detenuti nel tessuto sociale. Un modello apparentemente perfetto, persino da imitare, per quanto sia pensabile esportare un simile modello da una piccola e ricca realtà come quella norvegese a contesti più grandi come quelli di altri paesi europei. Ma un modello che un evento eccezionale, inaspettato e inaspettabile per una realtà come quella di Oslo, mette forse in crisi denunciandone alcuni limiti. Il premier Stoltenberg ha voluto affermare che la linea seguita sino ad ora è quella giusta. Che la politica del suo paese non sarà modificata in risposta ai fatti di venerdì scorso. Scelta eticamente condivisibile, soprattutto se si ragiona su larga scala, e persino giusta. Cambiare politica e comportamento rappresenterebbe un cedimento, e quindi una sconfitta. Alla violenza non si risponde con la violenza, e in quest’ottica anche la reintroduzione dell’ergastolo, peraltro sinora mai presa in considerazione, rappresenterebbe una sconfitta per la Norvegia. Ma, a fronte di queste considerazioni, è giusto che un individuo che ha ucciso a sangue freddo quasi cento persone, paghi la sua colpa con “solo” 21 anni di carcere?

La risposta a questo interrogativo è complessa e diversa a seconda dell’interlocutore. Le legislazioni dei vari paesi sono differenti e di conseguenza anche l’umano sentire delle persone varia a seconda del modello di società in cui si è formato. Questa domanda posta ad un cittadino statunitense otterrebbe quasi certamente come risposta un “no, ci vuole la pena di morte”. Un italiano probabilmente riterrebbe giusto “sbattere” Breivik in galera e gettare via la chiave ma, oggi, anche i cittadini norvegesi, almeno in parte, ritengono i 21 anni una pena lieve, troppo lieve.

Il paese scandinavo, con le sue prigioni moderne e confortevoli, suscita spesso lo stupore di paesi tradizionalmente considerati più repressivi, eppure registra tassi di recidività e di criminalità inferiori alla media europea. I morti degli attacchi di venerdì corrispondono a tre volte la media annuale di omicidi nel paese e, l’eliminazione dell’ergastolo, ha contribuito a rendere la legislazione norvegese una delle più all’avanguardia al mondo. Ma dopo un tale massacro questo modello suscita non poche perplessità. Su facebook come per strada sono in molti a pensare che per uno come Anders Behring Breivik andrebbe reintrodotta la pena capitale. Se il premier Jens Stoltenberg ha dichiarato: “La nostra risposta all’enormità del male sarà più democrazia, più umanità”, non tutti i suoi concittadini sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Questo sentire di pancia, sino a ieri ignoto ai cittadini del paese scandinavo, rappresenta al di là delle parole del primo ministro norvegese, una sconfitta della Norvegia. Ad Oslo la polizia gira disarmata, per “gestire” una convention come quella che era in corso nell’isola di Utoya basta un solo agente, anche lui disarmato. Era così perché i norvegesi si sentivano sicuri ma, domani, si sentiranno ancora sicuri allo stesso modo? Difficile dirlo, probabilmente no, e proprio questa sarà la sfida che il governo di Oslo si troverà ad affrontare nei prossimi mesi: ridare sicurezza ai suoi cittadini senza cedere alla tentazione della repressione. I 21 anni sono quasi certamente troppo pochi per un omicida come Anders Behring Breivik ma, condannarlo ad una pena più dura, significherebbe paradossalmente alleviargli la pena, dimostrandogli in qualche modo che la sua azione ha avuto successo.

E la durata della pena non esaurisce i dubbi etici e legali, la questione di quale legalità sia commisurabile, opportuna, lungimirante e congrua rispetto alla strage cercata, voluta e rivendicata. Il massacratore aveva previsto di non finire come un kamikaze, si è fatto catturare senza opporre resistenza. Vuole, ha “programmato” il pubblico processo, ne vuole fare una “tribuna” della sua opera di “pulizia del mondo”. Così il processo diventa appendice e parte della strage, ne diventa il secondo tempo. Come sottrarre al massacratore questa tribuna di sangue? Secretando il processo? Impossibile oltre certi limiti. Ma far da sponda alla propaganda della pulizia etnica è davvero un prezzo, il prezzo giusto, tutto il prezzo da pagare alla giustizia? E “democrazia sempre, anche di più”, come ha detto il leader norvegese può escludere una legge restrittiva sull’acquisto delle armi automatiche? E, ancor di più, davvero la democrazia norvegese e la democrazia tutta deve eludere la domanda: e sull’isola ci fossero stati poliziotti armati? In questo caso molti, moltissimi di quelli massacrati sarebbero vivi. Fino a che punto una democrazia può essere, anche nei suoi poliziotti, disarmata? Se e quando la democrazia può sparare ai suoi carnefici? Era dai tempi della guerra al nazismo che in Europa questa domanda non si poneva, ora è una domanda che torna a gravare sull’Europa.

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