ROMA – Comprensibile la disillusione e lo sconforto dei docenti precari che per essere assunti in pianta stabile devono accettare l’eventualità di una cattedra non nella città e forse neanche nella Regione in cui abitano. Comprensibile sul piano umano. Comprensibile anche la stizza in cui molti di loro trasformano la disillusione. Sono stati educati, è stato loro impartito per anni e decenni l’insegnamento e l’esempio per cui l’essersi messi in lista d’attesa, in faticosa lista d’attesa, però bastava: prima o poi, magari “ope legis”, si veniva “stabilizzati”. Insomma l’anzianità da precario era anche più o meno una garanzia di restare a lavorare finalmente assunti a casa o lì vicino. Garanzia su cui vigilavano i sindacati e prassi a cui il Ministero dell?istruzione si prestava. Comprensibile la stizza, perfino l’ira.
Comprensibili sul piano umano. Discutibili invece, e non poco, sul piano sociale e sul piano dell’interesse della collettività. Marcella Raiola su La Repubblica a nome, per conto e a buon titolo parla per buona parte dei prof che si sentono deportati in altra sede passando da precari a in cattedra. Molte le lamentele e le rivendicazioni della Raiola e di migliaia di altri come lei. Alcune fondate e documentate, altre alquanto di maniera. Altre ancora francamente improponibili quali il lamento pro domo sua sui criteri che vanno a comporre le graduatorie.
Non c’è dubbio comunque che la prof Raiola e mille e mille si sentono come si sente lei: “deportate” appunto, vittime e deportate. E forse quel termine, deportate “che ci è affiorato alla labbra” scrive la prof Raiola pur se enfatico corrisponde alla mutazione di aspettative di vita e di residenza che l’assunzione definitiva in altra sede in qualche caso impone ai prof precari (sulle cifre del fenomeno è tale battaglia di opposte propagande che non è serio accettarne l’una o l’altra). Prof Raiola non manca di parole e tesi, arriva a definire “gigantesco taglio mascherato” il piano di assunzioni, individua nella “lotteria” dell’assegnazione cattedre una “volontà punitiva della categoria”, accusa di “penalizzare le donne…”.
Su un solo punto ha poche, pochissime parole, quasi nessuna. Sul fatto, incontrovertibile fatto, che le cattedre da coprire, gli insegnamenti da impartire con le nuove assunzioni sono al Nord con un rapporto di due a uno rispetto al Sud d’Italia. Quindi, come fa La Stampa che diversamente da La Repubblica non si limita dall’ospitare con rilievo e sostegno implicito il lamento del prof/precario/deportato, si può calcolare che il 55% circa dei precari siciliani dovrà cambiare sede, il 50 per cento di quelli calabresi, il 46 per cento di quelli campani. L’esodo forzato, la deportazione riguarda praticamente solo queste tre Regioni per un totale di circa 20 mila prof precari su poco più di 70 mila posti disponibili.
E l’altro fatto incontrovertibile è che l’esodo e la deportazione, massicci ma non di massa (al massimo uno su quattro) avviene verso…Si è per dirla con loro deportati dove ci sono gli studenti. Al netto dei disagi e soprattutto della stizza delle migliaia di prof Raiola, bisognava forse deportare gli studenti?
Certo, è possibile che disagi possano essere alleviati da accorto maneggio delle graduatorie e delle assegnazioni. Certo cambiare città con uno stipendio da 1.500 al mese (perché dicono mille che non è vero? 1.500 è poco, non c’è bisogno di amputare per fare impressione) è arduo. Ma, senza pretesa e autorità per far la predica a nessuno su quanti e per ogni dove sono stati nella vita “deportati” dal loro lavoro e non per tremila netti al mese, una domanda va fatta. Non tanto ai prof che si sentono vittime, vittime scippate del loro “precariato garantito”. Domanda che va fatta a tutti noi cittadini che osserviamo, leggiamo, scriviamo, sentiamo e della scuola usufruiamo come studenti, genitori, nonni…La domanda è: per chi è, per chi esiste, a chi serve la scuola? Per gli studenti o per chi ci lavora dentro la scuola? Per gli studenti o per i prof?