Sanità ticket pazzi (più del privato) in paese pazzo dove il 60% è esente

esenzione-ticket-ricetta-sanitariaROMA – Dopo le ormai famigerate cartelle pazze, ad essere fuori controllo sono ora i ticket sanitari. La compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria, introdotta da tempo, aumentata di recente e prossima ad ulteriori cure ingrassanti, è una giungla senza controllo.

Il conto delle diverse cure e analisi, che si chiama ufficialmente ticket ma è conto, varia infatti da regione a regione, con differenze significative e, in alcuni casi limite, costa più il ticket pubblico che l’analisi fatta privatamente. Tra differenze, peso sempre maggiore dei ticket e crisi gli italiani si curano sempre meno, nel primo semestre di quest’anno c’è stato un calo del 9% degli esami clinici effettuati e, a rimetterci, sono paradossalmente sono anche le casse pubbliche perché, meno prevenzione oggi, vuol dire più malati e più costi domani. Il tutto condito dalla singolare realtà in cui si trova il nostro sistema sanitario dove 6 cittadini su 10 sono esenti dal pagamento del ticket.

Il problema dei “ticket pazzi” è stato segnalato dal Corriere della Sera che, nel giornale di domenica 6 ottobre, si è anche preso la briga di pubblicare una esaustiva tabella che mette a confronto il costo di alcuni esami diagnostici nelle principali città italiane, quanto questi esami costano allo Stato, quanto ai cittadini e quanto costerebbero se effettuati in intramoenia.

Il caso più clamoroso che emerge da questa tabella è quello della radiografia del torace: il costo per le casse pubbliche di questo esame oscilla tra i 15 euro e mezzo di Roma e Bari e i 26 di Firenze ma, in tutti i casi presi in esame, il ticket, cioè il costo per i cittadini, è sensibilmente più alto. A Firenze si pagano per questa radiografia 46 euro di ticket, a Roma 29 e mezzo e a Bari 25. E se quello della radiografia toracica è forse l’esempio limite, quello che mostra come i ticket siano davvero “pazzi”, arrivando a pesare più del costo a cui dovrebbero “compartecipare”, e di come siano diffuse le diseguaglianze tra regione e regione, non è questo certo l’unico. Stesso discorso per la visita cardiologica che, quasi ovunque, ha un ticket più pesante del costo dell’accertamento: a Milano l’esame costa allo Stato 22 euro e 50, ma il ticket è di 28 e 50; a Torino costa 20.70 con un ticket di 26.70 e via dicendo.

“Ho fatto un ecodoppler presso la mia Asl – racconta un lettore del Corriere della Sera -: 11 mesi di attesa e 50 euro di ticket. Poi il mio medico mi ha detto che se l’avessi fatto privatamente avrei speso la stessa cifra e non avrei aspettato”. Un caso sicuramente limite visto che, generalmente, le visite in regime di intramoenia sono più onerose rispetto al ticket. Ma in alcuni casi la distanza è ormai quasi colmata. Ancora a Torino, ad esempio, l’ecografia dell’addome, che privatamente costerebbe 80 euro, prevede un ticket di 53.

Complice la crisi gli italiani tagliano allora sulla loro spesa sanitaria. Le statistiche dicono infatti che si fanno meno esami diagnostici, e quindi meno prevenzione. Meno 9% nei primi sei mesi di quest’anno, ma percentuale che arriva in doppia cifra (-17.2%) tra i cittadini che non godono di nessuna esenzione. Già, perché noi siamo il Paese che chiede ai suoi cittadini, giustamente, di partecipare alla spesa sanitaria e contemporaneamente esenta più della metà di quegli stessi cittadini dalla partecipazione. Esenzioni che sono, come la compartecipazione, in linea di principio giuste. E ci mancherebbe. Quello che è però sbagliato e il modo e la quantità.

Anche paesi virtuosissimi e attenti al welfare come quelli scandinavi chiedono il ticket ed esentano le fasce più deboli dal pagamento. Ma lì il ticket non è cambia da ospedale ad ospedale e non pesa più del costo dell’esame stesso e, certamente, il 60% dei cittadini non vanta una qualche esenzione.

“Evidentemente si tratta di uno strumento che non viola i sacri valori dell’universalismo – scrive Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera di oggi, 7 ottobre – e che anzi si presta a calibrarlo meglio in termini di equità, chiedendo di più a chi ha di più. In un’epoca di austerità permanente, è un principio di buon senso. Che però stenta ad attecchire nel sistema europeo che pure ne avrebbe maggiore bisogno: il nostro”.

 

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