Scambio Fornero: meno art. 18 sui licenziati e finalmente reddito minimo

di Riccardo Galli
Pubblicato il 12 Dicembre 2011 - 14:59 OLTRE 6 MESI FA

Elsa Fornero (foto LaPresse)

ROMA – Articolo 18 in cambio di reddito minimo. Sarebbe questa l’idea che ha in testa la ministra Elsa Fornero: uno scambio da proporre ai sindacati per metter mano alla riforma del mondo del lavoro, toccando l’articolo 18, il vessillo, il dogma, il punto su cui nessun sindacato è disposto a cedere.

Di modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che regola il tema dei licenziamenti, si è parlato spesso. Per fermare una sua modifica la Cgil organizzò una delle più imponenti manifestazioni degli ultimi anni al Circo Massimo ma, sindacati o no, se si vuole riformare il mercato del lavoro, come ci ha chiesto e come abbiamo promesso all’Europa, anche per quell’articolo bisognerà passare.

E per superare questo scoglio la ministra del welfare punta appunto su uno scambio. E la merce che metterebbe sul piatto sarebbe una di quelle che potrebbero, anzi almeno in teoria dovrebbero, allettare i sindacati: il reddito minimo, l’ammortizzatore sociale che in Italia non esiste, nonostante i ripetuti richiami dell’Ue. Reddito minimo garantito che in Italia era stato inserito per un breve periodo dal governo di centrosinistra su iniziativa dell’allora ministro Livia Turco ed è poi stato replicato in alcune regioni. Nella nuova forma questo ammortizzatore sociale dovrebbe essere formulato come un assegno mensile (fra i 500 e i 1000 euro per un massimo di 2 o 3 anni) per i giovani in cerca di prima occupazione o per i disoccupati che hanno difficoltà a ritrovare lavoro.

L’introduzione di questo ammortizzatore sociale sarebbe una conquista, non solo per i sindacati, ma anche per i lavoratori. Un grimaldello che potrebbe modificare l’atteggiamento di assoluta intransigenza dei sindacati in tema licenziamenti. Anche perché la Fornero starebbe pensando ad un allentamento, e non alla cancellazione dell’articolo di 18, perseguendo quella che viene definita «flexsecurity », una maggiore flessibilità sostenuta da un sistema rafforzato di ammortizzatori sociali per compensare la maggiore precarietà del lavoro. Il tutto nel contesto di una riforma che riguarderà anche le regole della contrattazione.

L’articolo 18 oggi prevede che le aziende possano licenziare solo per giusta causa (per esempio inadempienza contrattuale grave) o per giustificato motivo (crisi aziendale). Il licenziamento che non rientra in uno di questi casi può essere impugnato. Il lavoratore nelle aziende con più di 15 dipendenti ha diritto al reintegro o, se preferisce, a un’indennità (15 mensilità). Nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il datore di lavoro può pagare un risarcimento al posto del reintegro. Le ipotesi per «alleggerire» l’articolo 18 sono almeno due: ampliamento del concetto di giusta causa. Oppure introduzione di deroghe all’obbligo di reintegro. Secondo un recente intervento del giuslavorista Pietro Ichino, infatti, «le imprese possono licenziare solo quando sono ormai al fallimento, mentre bisognerebbe prevedere la possibilità di licenziare prima che le crisi aziendali diventino irreversibili».

Il governo vorrebbe poi superare l’attuale schema che attribuisce il peso maggiore alla contrattazione nazionale, a scapito di quella aziendale. L’idea, secondo quanto emerso, sarebbe di ridurre la parte di retribuzione legata ai contratti nazionali. La quota di trattamento economico trasferita nella contrattazione aziendale sarebbe resa più «ricca» per i lavoratori attraverso incentivi fiscali, a patto però che venga legata alla produttività. Quando qualche giorno fa la Fornero ha accennato al reddito minimo, i sindacati hanno ignorato e lasciato cadere, se ne riparlerà a gennaio.