Spread come pelle del pongo: i 5 mesi di Berlusconi, i 5 giorni di Monti

foto Lapresse

ROMA – Se lo spread schizza alle stelle è colpa di Berlusconi e del suo esecutivo. Se il differenziale prosegue la sua ascesa anche dopo le dimissioni, è la prova che la colpa non era del Cavaliere. La spiegazione, l’analisi dell’andamento del differenziale tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi, cambia a seconda di dove batte il cuore di chi giura di far solo aritmetica. Tutti, analisti compresi, hanno sostenuto che l’impennata dello spread fosse, almeno in parte, figlia dell’ostinazione del nostro governo a non farsi da parte e non fare riforme. Alcuni, soprattutto berlusconiani, sostengono ora che dopo le dimissioni la differenza di rendimento tra i due titoli non solo non è significativamente diminuita, ma ha anzi continuato la sua altalena oltre soglia 500. Lo spread come la “pelle” del pongo: lo poggi e lo spremi come ti pare e lui resta lì.

Ma qual è la verità? La verità è che lo spread è entrato ormai nel nostro quotidiano e tutti ne parlano come fossero esperti di economia e mercati quando invece di queste materie poco o nulla sanno, come ricorda anche il Sole 24 Ore. E sempre il quotidiano di Confindustria, certamente tra i più competenti in materia di economia, spiega una cosa che dovrebbe esser ovvia anche ai profani: l’andamento dello spread non si può misurare, e spiegare, in giorni, occorrono mesi. L’oscillazione giornaliera è infatti condizionata da elementi contingenti che non consentono una spiegazione a lungo termine.

E’ vero che dopo le dimissioni del Cavaliere lo spread non è precipitato, ma ad onor di cronaca non è vero che è rimasto alto con Monti, non era infatti sino ad oggi (16 novembre) il professore ancora presidente del Consiglio, si è trovata l’Italia in questi giorni in una sorta d’interregno. Ma, come detto, servono mesi o almeno settimane per analizzare l’andamento del differenziale.

Ragionando in termini di mesi, 5 mesi fa, il 15 giugno, lo spread era a 185 punti. Ieri, il 15 novembre, a 534. Quota 575 il picco prima dell’annuncio delle dimissioni, anzi all’annuncio delle dimissioni a scadenza posticipata. L’esecutivo Berlusconi ha quindi sulla coscienza un più 349/390 punti. Va riconosciuto che la colpa di questa enorme crescita non è tutta di Berlusconi e dei suoi, e nemmeno dei conti, pessimi, del nostro Paese. La crisi, come ama ricordare l’ormai ex premier, non è nata in Italia. Ma qui è stata pessimamente gestita. La crisi greca non dipende certo da loro come, a maggior ragione, la crisi internazionale. Ma in questo contesto l’inattività e l’incapacità di prendere contromisure dell’esecutivo guidato dal Cavaliere hanno ovviamente fatto da volano per l’esplosione del differenziale.

Il “caso Italia” scoppia tra il 5 e il 6 luglio. All’ombra dell’outlook negativo “a sorpresa” sulla “A+” di S&P il 21 maggio, e la “Aa2” di Moody’s sotto osservazione il 17 giugno, nel contesto dunque di spread BTp/Bund già in fibrillazione su debito, crescita e immobilismo politico, l’attesissima conferenza stampa del 5 luglio sulla manovra economica salta. Cancellata per colpa del “maltempo”. La conferenza stampa che radunava i ministri-chiave del Governo Berlusconi si svolge 24 ore dopo, in via Venti Settembre il 6 luglio, con una nota dettagliata, distribuita tra i giornalisti e contenente parecchi numeri: non le cifre dei conti pubblici, ma piuttosto le cancellazioni dei voli per maltempo. Il problema furono proprio i numeri forniti in quell’occasione, pochi e confusi al punto che subito dopo la conferenza stampa iniziarono a rincorrersi stime diverse, 40, 46, 48 miliardi e a salire. Agli analisti delle banche estere la clientela istituzionale chiedeva spiegazioni, che non arrivavano.

Ci volle un comunicato stampa chiarificatore del Mef, attorno alle 19.30 di quello stesso giorno, per confermare al mercato lo scenario peggiore: gli interventi erano posticipati al 2013 e 2014. Dopo le elezioni, della serie “chi vivrà, vedrà”. Un tracollo di fiducia rispetto alle alte aspettative. “Vediamo come la prendono i mercati domani mattina”, commentò quella sera un trader. La presero male: “Il mercato boccia la manovra, spread Btp/Bund a 226, è record”: era il 7 luglio.

Da quel momento, le risposte politiche del governo Berlusconi alle sollecitazioni dei mercati, della Bce, di Bruxelles e dell’Fmi sono arrivate puntualmente in ritardo, segnando un’escalation di record negativi di rendimenti e spread. Il 5 agosto i rendimenti dei Btp salirono alle stelle: la Bce scese in campo acquistando dall’8 Btp e Bonos spagnoli. Ma intanto il 5 stesso Eurotower aveva inviato al governo Berlusconi la lettera a doppia firma di Trichet e Draghi, con una lunga lista di riforme e correzioni per il pareggio di bilancio nel 2013. La manovra del 13 agosto è andata sì nella direzione voluta da Bce e Ue, garantendo l’equilibrio dei conti pubblici (o quasi) per il 2013. Ma i mercati avevano oramai deciso di non concedere più sconti e così si soffermarono sulle stime della crescita troppo elevate nelle manovre berlusconiane e gli interventi eccessivamente restrittivi: il seme dell’incertezza sulla necessità di ulteriori correzioni germogliò allora.

L’inadempienza del Governo sulla realizzazione delle richieste pressanti contenute nella lettera Bce si è manifestata poi palesemente in autunno: le riforme strutturali per rilanciare la crescita potenziale sono state rinviate di settimana in settimana, al punto che Berlusconi è arrivato a Bruxelles per il Consiglio europeo lo scorso 26 ottobre a sua volta con una lettera di sole promesse. Niente decreto o Ddl. Lo scambio delle missive tra Roma e Bruxelles, con tanto di questionario, ha infuriato i mercati. Nuove, stizzite vendite hanno spinto i rendimenti dei Btp sopra la soglia del 7% e lo spread a quota 576 (soli 100 punti base di distanza dal record storico dei 670 punti segnato il 17 marzo del 1995, però con la lira). I mercati hanno reagito male alle dimissioni «annunciate» di Berlusconi, bene all’arrivo di Mario Monti ma poi male all’incarico “con riserva” per colpa delle resistenze dei partiti politici e poi ancora malissimo quando Berlusconi ha sbandierato la “golden share” sul governo nascente. Di Mario Monti lo spread non si è fidato sulla parola: nuovo governo annunciato non è stato neanche paese mezzo salvato.

Se ora Monti sarà capace e servirà a ridurre la forbice lo si potrà giudicare dal giorno del programma esposto alle Camere, dal voto di fiducia in poi, dal primo Consiglio dei ministri, dalla prima legge centrata o mancata. Appuntamento allo spread di Natale, tra cinque settimane se non proprio tra altri cinque mesi, a metà aprile.  Con buona pace di tutti quegli italiani che ora, oltre che allenatori, son diventati economisti.

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